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G. Fanello Marcucci, C. Marazzini, G. Di Leo e N. Maraschio
Il presidente Claudio Marazzini con Claudia Arletti e Mario Calabresi
Da sinistra: Benedetti, Givone, Benintende, Maraschio, Ravenni, Lavia
XII Convegno ASLI

Forestierismi e professioni femminili: due settori degni di attenzione


Dicembre 2015

Cecilia Robustelli e Claudio Marazzini

 

L’Accademia e il linguaggio della vita sociale

 

L’Accademia della Crusca ha tra i suoi obiettivi principali lo studio dell’uso della lingua italiana contemporanea e dei suoi mutamenti che oggi, grazie ai moderni strumenti di ricerca e di comunicazione, è possibile cogliere al loro primo manifestarsi. Grande attenzione viene dedicata al linguaggio istituzionale, da quello amministrativo  a quello normativo, per il la sua funzione fondamentale nella necessaria comunicazione fra stato e cittadinanza, base della vita democratica: se non si comunica bene, viene meno la partecipazione. L’Accademia segue quindi con molta cura l’evoluzione di tale linguaggio ed esamina le innovazioni che vi sono introdotte, per verificare se esse risultino effettivamente un miglioramento, cioè producano maggiore chiarezza e trasparenza nella comunicazione istituzionale, oppure abbiano l’effetto contrario: e in tal caso, l’Accademia non esita a pronunciarsi.

Due sono le questioni grammaticali e le conseguenti innovazioni che oggi, per la loro incipiente diffusione nella lingua italiana e nel linguaggio istituzionale, meritano un attento monitoraggio: la diffusione dei neologismi, soprattutto degli anglicismi, e l’uso delle forme femminili relative a ruoli istituzionali ricoperti da donne.

           

Anglismi ingannatori: come si falsifica la comunicazione a danno della chiarezza

 

Per la prima questione l’Accademia si è espressa ufficialmente in occasione del convegno La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi (Firenze, Accademia della Crusca, 23-24.2.2015) organizzato in collaborazione con la Società Dante Alighieri e l’Associazione Coscienza Svizzera. L’Accademia ha dichiarato la propria perplessità di fronte a un uso di parole straniere nella lingua italiana, dettato più da una moda che da una reale necessità, sottolineando il dovere di “restituire agli italiani la piena fiducia nella loro lingua in tutti gli usi, compresi quelli scientifici e commerciali, senza combattere battaglie di retroguardia contro l’inglese e consapevoli che il lessico è di per sé la parte più sensibile al mutamento e alle innovazioni di ogni lingua” (C. Marazzini). Particolare attenzione all’uso di parole straniere viene richiesta al linguaggio istituzionale, in considerazione delle sue finalità comunicative e del diritto individuale a una comunicazione chiara e comprensibile da parte delle istituzioni, l’unica che possa garantire la comprensione dell’azione amministrativa posta in essere dello stato. La mancata conoscenza del singolo termine da parte del comune cittadino o la natura elusiva ed equivoca del termine stesso possono infatti oscurare il senso e il significato dell’intero messaggio, oppure possono renderlo fuorviante. La cronaca di questi giorni, con il coinvolgimento di tanti piccoli risparmiatori nel fallimento di alcune banche italiane, ignari sottoscrittori (ingenui o disinformati) di patti ad alto rischio, dimostra che l’informazione corretta non consiste in una ridondanza di informazioni: oggi le banche ci fanno sottoscrivere decine e decine di pagine di un presunto “consenso informato” che in realtà è fin dall’inizio un’evidente operazione di lettura impossibile. Se poi queste oscure e sbrodolate pagine di presunta chiarificazione contengono termini come  currency, warrant, rating, bond, l’inganno diventa anche maggiore. Sappiamo che la maggior parte dei piccoli risparmiatori italiani sono anziani e pensionati che non sanno l’inglese, ma i diritti di un cittadino sono validi anche se non sa le lingue straniere, e anche se non conosce il lessico tecnico dell’economia e della finanza.

L’Accademia da tempo cerca di contribuire alla chiarezza e trasparenza del linguaggio attraverso un monitoraggio dei forestierismi relativi al campo della vita civile e sociale che si affacciano alla lingua italiana. Tale compito è ora affidato in parte al gruppo INCIPIT, fondato recentemente, formato da studiose e studiosi italiani e stranieri che, senza alcun autoritarismo linguistico, ma sul piano della collaborazione, intende segnalare forestierismi di dubbia utilità e propone agli operatori della comunicazione e ai politici valide alternative italiane. Il Gruppo INCIPIT è intervenuto per ora due volte: in un primo comunicato ha condannato l’uso di “hot spot” per indicare i centri di identificazione dei richiedenti asilo; in un secondo comunicato ha condannato l’uso di “voluntary disclosure” per indicare la “collaborazione volontaria” messa in atto da chi fa emergere capitali occultati all’estero. La seconda sostituzione pare affermarsi, perché l’Agenzia delle entrate nel proprio sito adopera ormai l’espressione italiana, molto più trasparente e più facile da pronunciare. La sostituzione del primo termine,  da noi reputato politicamente scorretto e offensivo, purtroppo non pare abbia convinto il Ministro competente per gli Interni, che il 16 dicembre (trasmesso dal GR1 delle 8 di mattina) parlava di «chi usa gli hot spot per non fare la relocation ai migranti…». Ma non si poteva dire, più chiaramente e più elegantemente, “chi usa i centri di identificazione per impedire il trasferimento dei migranti?”.

           

Professioni al femminile e correttezza linguistica

 

Anche sulla seconda questione, l’uso delle forme femminili relative a ruoli istituzionali ricoperti da donne, l’Accademia si è già espressa in tempi recenti e in più occasioni, ma questa volta per dare un parere positivo: condividendo con il Comune di Firenze il progetto Genere e linguaggio e le Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo (2012) redatte dalla propria collaboratrice prof. Cecilia Robustelli; dedicando all’argomento uno dei Temi sul suo sito a cura della stessa; inserendo il tema fra quelli previsti dagli incontri di aggiornamento sull’italiano dedicati dall’Accademia all’Ordine dei Giornalisti della Toscana.

La questione, al di là della facile ironia di alcuni, è tuttora di grande attualità e viene periodicamente ripresa dalla stampa, oltre a essere oggetto di interesse da parte delle stesse istituzioni, come prova la fondazione del Gruppo Esperti del Linguaggio, costituito presso la Commissione Pari Opportunità dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cui fa parte anche la prof. Robustelli. Le nuove forme femminili relative a ruoli istituzionali ricoperti da donne rappresentano la risposta della lingua italiana all’ingresso delle donne nelle istituzioni dello stato, e così come la Costituzione ne riconobbe la presenza in quello del lavoro definendo la donna con il femminile “lavoratrice” (art. 37), così è opportuno che il linguaggio istituzionale oggi le riconosca in quello delle istituzioni definendole con il genere grammaticale pertinente, secondo le regole della lingua italiana. L’Accademia, pur senza sovrapporre meccanicamente la distinzione del genere grammaticale nelle sue funzioni strettamente linguistiche e la distinzione dei sessi, auspica pertanto che i termini che indicano ruoli istituzionali (e, per estensione, quelli che indicano lavoro o professione) riferiti alle donne siano di genere grammaticale femminile, dal momento che ciò permette anche la sicura identificazione della persona cui si fa riferimento e quindi l’eliminazione di ogni l’ambiguità. Si eviteranno così anche usi discriminanti e formulazioni che mal si accordano con le funzioni del linguaggio istituzionale, a tutto vantaggio della sua chiarezza e trasparenza. Per quanto riguarda le specifiche questioni di tipo redazionale che possono presentarsi per l’introduzione delle forme femminili si rimanda alle Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, pubblicate sul sito dell’Accademia.

 

Claudio Marazzini è presidente dell'Accademia della Crusca.

Cecilia Robustelli (Dott lett Univ. Pisa, MA e PhD Univ. Reading) è docente di Linguistica Italiana all'Università di Modena e Reggio Emilia. Ha svolto attività scientifica e didattica in Inghilterra (Univ. di Reading, Londra Royal Holloway e Cambridge) e Stati Uniti come Fulbright Visiting Scholar presso la Cornell University. I suoi campi di ricerca sono la sintassi storica, la storia della grammatica, il linguaggio di genere e la grammatica dell'italiano contemporaneo. Fa parte del Comitato di esperti/e della Rete di Eccellenza dell'Italiano Istituzionale (REI) presso il Dipartimento di Italiano della Commissione Europea e del Comitato direttivo della European Federation of National Institutions for Language (EFNIL). Collabora con l'Accademia della Crusca sui temi del genere e della politica linguistica italiana in Europa.
http://unimore.academia.edu/CeciliaRobustelli

 

Intervento conclusivo di Claudio Marazzini
Come era inevitabile, il discorso avviato sul linguaggio di genere nelle professioni ha suscitato reazioni diverse. Accanto alle rivendicazioni di chi pretende il riconoscimento del ruolo della donna, si è levata la voce di chi insiste sulla “funzione” intesa in maniera neutra, al di là di ogni distinzione tra i sessi, e la considera già sufficientemente espressa da un maschile non marcato.
Sarà bene proseguire il confronto su questi temi, evitando però il dialogo tra sordi, anche se nel nostro paese non si è molto abituati a un reale confronto di argomenti, ma spesso si preferisce un contrasto privo di sviluppi.
Abbiamo la speranza che si possa organizzare una visita della Presidente Boldrini in Accademia: lo ha promesso lei stessa durante una visita del prof. Marazzini e della prof.ssa Robustelli a Roma, a Montecitorio, il giorno 29 gennaio 2016. In quell'occasione l'on. Boldrini ha esposto ai due rappresentanti di Crusca le sue opinioni sul tema che qui abbiamo proposto. Sarà un piacere poterne parlare anche nella sede fiorentina della nostra Accademia.
Quanto all'inglese, il tema è talmente incalzante che dovremo tornarci sopra al più presto. I comunicati di Incipit si sono avviati con quello su "hot spot", e vediamo bene che sono diventati un punto di forza delle nostre iniziative. "Hot spot" è indifendibile, anche se purtroppo quasi tutti continuano a usarlo, e mi pare che punto di crisi, che non è stato proposto da noi, abbia purtroppo ben poca fortuna. La cosa, del resto, poteva essere prevedibile, trattandosi di un’espressione scialba e generica, che non lascia capire di quale "punto" si tratti. Si organizzano centri di identificazione, e non si capisce perché dovrebbero avere un nome diverso. Forse per renderli invisibili o irriconoscibili?

Claudio Marazzini

E' molto importante fare distinzione tra ruoli, professioni e titoli. Una attività accademica può essere eseguita da un "ricercatore" e da una "ricercatrice", un'operazione può essere eseguita da un "addetto" o un' "addetta", a prescindere del livello culturale, di istruzione o del livello sociale della mansione. Invece, secondo me, un titolo fa riferimento all'appartenenza ad un gruppo e, come sottolineato da qualcuno, ha un'accezione neutra.
Per cui penso che la femminilizzazione non sia un'operazione applicabile "a tappeto", malgrado quanto stiano cercando di far passare a livello politico, e, nella maggior parte dei casi, non è legata all'emancipazione delle donne.
Vorrei sapere cosa pensate di questo punto di vista.

Sul problema "anglismi" andrebbe fatta preliminarmente una raccomandazione ai nostri politici, specie a coloro che ci governano e che, come tali, presentano proposte di legge; usino la nostra lingua non solo, ovviamente nel testo di legge, ma anche nella loro presentazione sia orale che scritta.
Che senso ha, di grazia, ill.mo Presidente del Consiglio, presentare la riforma dello "statuto dei lavoratori" con la dizione inglese "job's act". La ritengo una orrenda goffaggine; forse con l'inglese crede di dar maggior peso ad una sua riforma?
Leggo stamani, a proposito della riforma della legge fallimentare, un'altra anglo-perla, che mi auguro sia una iniziativa del redattore dell'articolo: la "fresh start" in tema di "esdebitazione", istituto che equivale ad una sorta di riabilitazione del fallito e che rispetto al passato sarebbe facilitata. Preciso che sulla riforma il sottoscritto, per quel che può valere, è favorevole. Per sottolineare che la mia preoccupazione riguarda solo l'uso smodato ed inutile di "anglismi". Solo perché "fa figo"?

Andrea ha ragione.
Il motivo per cui la costituzione menziona esplicitamente il genere e che all'epoca [in cui questa fu redatta] la partecipazione femminile alla vita pubblica, e in generale, la parita sociale tra i sessi non erano affatto scontate. Si puo' argomentare che non lo siano nemmeno ora, ma appunto perche sono passati sessant'anni, e' ora di pensare e scrivere come se lo fossero, come se una visione alternativa non sia nemmeno concepibile.
Le parole pesano. Se una ricercatrice, una poliziotta, una presidentessa sono distinte nel nome dai colleghi maschi come possiamo pretendere che siano considerate del tutto equivalenti nei fatti?
Sfortunatamente, la flessivita' della nostra lingua costituisce uno svantaggio in questo senso, rispetto per esempio all'inglese. Qui in US, dove peraltro la parita' femminile non e' poi molto piu' affermata che in Italia, almeno abbiamo molti epicene designators (termini "unisex") come judge, agent, lawyer, mayor. Per estensione dunque usiamo sempre piu' tali terminii neutri quale spouse e partner, o termini maschili quale actor, anche quando ci sono alternative che designano specificamente il sesso femminile, proprio per sottolineare che almeno in teoria, il sesso della persona non e' rilevante.
Come -in teoria- diceva Yogi Berra, in teoria non c'e differenza tra teoria e pratica, ma in pratica c'e'. Cerchiamo almeno di non legittimare la disparita' codificandola in parole.

Parole da Lei citate in inglese però, i.e. "lawyer" e "mayor" rimangono "unisex" e non hanno mai avuto connotazione di genere in italiano: "sindaco" e "avvocato". In tedesco invece rispetto ad altre lingue europee si distingue ancora, almeno per "l'avvocato" (Rechtsanwaeltin).

Ottimo articolo, condivido in pieno!

Trovo anche ottimo il commento inviato la Licia Corbolante, con puntualizzazioni estremamente utili.

Il commento dell'utente 'andrea' mi sembra invece molto debole, a partire dal fatto che sembra ignorare l'assenza del genere neutro in italiano. Ovviamente molta letteratura si è spesa sulla profonda differenza, anche nelle sue ripercussioni psicologiche e discriminatorie, fra 'neutro' e 'maschile inclusivo', e non mi sembra il caso di ricapitolarla qui (una prima bibliografia è facilmente reperibile sulle prime pagine fornite dai motori di ricerca).
Una scorciatoia esperienziale per capirne l'essenza potrebbe essere la seguente: provi l'utente ad applicare mentalmente nella lingua di tutti i giorni, come esperimento concettuale, il 'femminile inclusivo' al posto del 'maschile inclusivo' e provi a verificare il grado di inclusione effettivamente sperimentato.
Se fatto con sincera volontà di ricerca può essere un esperimento illuminante. Se invece la voglia di mettersi in gioco è poca, poco farà, e continueremo a trovare persone che, ad esempio, brontolano o fanno facili battute se l'insegnante di yoga usa il 'femminile inclusivo' dicendo "ci siete tutte?" (magari in presenza di un solo uomo), e poi non vedono perché una donna non dovrebbe sentirsi perfettamente rappresentata dall'uso tradizionale e omnipervasivo del 'maschile inclusivo'...

La consapevolezza (anche linguistica) richiede buona volontà e capacità immaginativa: grazie per promuovere entrambe su questo sito!

Mettendo tutto al femminile potremmo avere casi come questo: "M. Hack era la più grande "astronoma" italiana." Cioè, la migliore fra le donne che studiano astronomia, ma non il migliore astronomo italiano in assoluto. A parte questo le femministe si mettano d'accordo: in Skandinavia e USA è offensivo usare desinenze grammaticali femminili. In Germania e in Italia, viceversa, tocca usarle. In area ispanica si è giunti a aberrazioni come "la presidenta (sic)".

In un'ottica di parità di genere, non sono interessato che il mio docente, presidente, sindaco o ministro sia maschio o femmina quanto piuttosto che sia onesto e capace.
L'argomentazione che una distinzione "permette anche la sicura identificazione della persona cui si fa riferimento e quindi l’eliminazione di ogni l’ambiguità" è debole perchè evidenzia ciò che vogliamo non esista, ovvero la distriminazione sessuale sarebbe stato più logico e intelligente trasformare quegli stessi termini da maschili a neutri. La distinzione dei sessi in ogni termine mi pare una forzatura; avrei preferito che le professioni fossero sempre considerate con un termine neutro facendo diventare ad esempio, "sindaco" alla stregua di "docente" o "ministro" come "presidente".
Diverso è il discorso per alcuni termini che in particolari ambiti diventano dei tecnicismi utilizzati spesso per motivi di concisione o pigrizia e che difficilmente trovano semplici alternative in italiano, ma che quando esistono andrebbero usate.

Sono d'accordo con queste argomentazioni, semplici ed efficaci.
Un professionista è tale a prescindere dal genere.

Su hotspot credo sia utile ricordare che già da maggio 2015 nei documenti in italiano dell'Unione europea è usato il termine punto di crisi. Penso andrebbe promossa la terminologia ufficiale anziché proporne di alternativa.

Segnalo anche che relocation identifica un concetto specifico usato solo in ambito UE, in italiano ricollocazione. Ha come coiponimo reinsediamento (in inglese resettlement) e come iperonimo trasferimento.

La terminologia della migrazione è consultabile nel database terminologico IATE (iate.europa.eu) e nel glossario multilingue dell’Europea Migration Network (non è consentito inserire link ma si può trovare facilmente con la ricerca “EMN Glossary & Thesaurus”).

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