Infermiera sì, ingegnera no?
Marzo 2013
Cecilia Robustelli (Università di Modena)
La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico. In Italia numerosi studi, a partire dal lavoro Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo. Inoltre, in italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile (francese, spagnolo, tedesco, ecc.), la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.
Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti paesi europei, per esempio dalla Confederazione Svizzera - dove l’italiano è tra le lingue ufficiali - che ha pubblicato recentemente una Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione (2012). In Italia la Direttiva Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche ha rinnovato qualche anno fa (2007) la raccomandazione a usare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminante e ad avviare percorsi formativi sulla cultura di genere come presupposto per attuare una politica di promozione delle pari opportunità. Molte amministrazioni hanno aderito a questo invito e la stessa Accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progetto Genere&linguaggio e alla pubblicazione delle prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo. Ma sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Bocassini, l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini.
Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.
I meccanismi di assegnazione e di accordo di genere giocano un ruolo importante nello scambio comunicativo e meriterebbero di essere conosciuti anche al di fuori della cerchia accademica per fugare la convinzione, diffusa, che usare certe forme femminili rappresenti solo una moda. Molti ricorderanno il recente diverbio sorto in una riunione in Prefettura (a Napoli) perché un cittadino chiamava signora (essendo incerto sul termine prefetta!), invece che protocollarmente prefetto, la titolare di questa carica in una provincia vicina.
Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?
Cecilia Robustelli (Dott lett Univ. Pisa, MA e PhD Univ. Reading) è docente di Linguistica Italiana all'Università di Modena e Reggio Emilia. Ha svolto attività scientifica e didattica in Inghilterra (Univ. di Reading, Londra Royal Holloway e Cambridge) e Stati Uniti come Fulbright Visiting Scholar presso la Cornell University. I suoi campi di ricerca sono la sintassi storica, la storia della grammatica, il linguaggio di genere e la grammatica dell'italiano contemporaneo. Fa parte del Comitato di esperti/e della Rete di Eccellenza dell'Italiano Istituzionale (REI) presso il Dipartimento di Italiano della Commissione Europea e del Comitato direttivo della European Federation of National Institutions for Language (EFNIL). Collabora con l'Accademia della Crusca sui temi del genere e della politica linguistica italiana in Europa.
http://unimore.academia.edu/CeciliaRobustelli
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Intervento conclusivo di Cecilia Robustelli
La ricchezza e la vivacità di commenti suscitati da questo tema dimostra che l’interesse per l’uso di un linguaggio rispettoso dell’identità di genere, che presenta molti punti di contatto con il dibattito sul linguaggio non sessista degli anni Ottanta, è ancora vivo: forse, come si sostiene in uno degli interventi, vi si può vedere un indice che “la cittadinanza riprende a usare il proprio spirito critico”. Alcuni presupposti concettuali risultano ormai accettati e condivisi, su tutti quello che il linguaggio non è immutabile, ma può essere plasmato rispetto alla tradizione in base ai mutamenti della società. Anche l’ascesa sociale delle donne deve essere riflessa dall’uso della lingua, largo quindi alle forme femminili per titoli professionali e ruoli istituzionali di prestigio per contribuire all’affermazione di una cultura paritaria nel rispetto delle differenze di genere. Le pratiche educative devono riflettere questa nuova cultura, a partire dai libri di testo, per contribuire fin dai primi anni alla formazione delle nuove generazioni.
Il rifiuto di usare il genere grammaticale femminile viene interpretato come una resistenza “all’apparire delle donne in certe attività”. È falso, si sostiene nella quasi totalità degli interventi, che le forme maschili conferiscano maggiore autorità rispetto a quelle femminili: al contrario, sono ritenute l’ultimo baluardo del predominio maschile! Per questo la preferenza verso i titoli maschili da parte di molte donne di primo piano della vita politica e sociale viene interpretato come una rinuncia al proprio valore e alla propria soggettività. L’apertura, da parte dei media, verso l’uso di forme femminili viene accolta con grande favore, così come i tentativi individuali (ancora sporadici!) di superare l’impermeabilità alle forme femminili che si osserva in alcuni ambiti professionali e istituzionali quali (parzialmente) quello medico e quello militare.
Si osserva una maggiore sicurezza sul piano grammaticale: le incertezze di tipo morfologico, cioè sulla correttezza formale delle nuove formazioni femminili, sembra dissipata, con l’eccezione per le forme in -essa per le quali si chiedono vere e proprie regole. Quel che qui possiamo dare sono però solo suggerimenti: usare tranquillamente le forme in -essa già in uso nella nostra lingua (campionessa, dottoressa, professoressa, ecc.), evitare di costruirne di nuove preferendo altre strategie di formazione lessicale (deputata, ministra, sindaca) o l’anteposizione dell’articolo femminile per le forme in -e (la giudice, la vigile, ecc.). Si rimanda a questo proposito alle Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, pubblicate dal Comune di Firenze e dall’Accademia della Crusca, pp. 19-20.
Cominciamo, o continuiamo, quindi a usare le forme femminili con piena tranquillità rispetto alla loro correttezza formale e con consapevolezza del loro portato, non solo simbolico, per l’affermazione di una nuova cultura di genere. Come sosteneva Nicoletta Maraschio nel suo intervento conclusivo del mese scorso, infatti, "le lingue non sono strumenti neutri chiamati a svolgere una semplice funzione comunicativa, le lingue sono sistemi complessi, fatti di tante varietà e rispondenti a tante funzioni diverse. Può essere estremamente rischioso rinunciare ad usarle nella loro interezza!".
Trovo curioso che in un mondo in cui tutto cambia (e anche assai velocemente) secondo le tesi di alcuni solo la lingua dovrebbe rimanere immutabile, impermeabile alle (naturali o inevitabili) evoluzioni dell'organizzazione della società, del sentire comune e della cultura condivisa. Trovo curioso, inoltre, che le resistenze all'uso di neologismi come femminicidio non vadano di pari passo con il rifiuto di nuove parole derivate dalla tecnologia o da influenze anglosassoni. Il problema, in realtà, non è il linguaggio ma il tentativo di negare alle donne, a quei ruoli, l'esistenza. Di riconoscerle in quanto donne e in quelle funzioni o professioni.
Cara Cecilia, abbiamo avuto modo di confrontarci qualche giorno fa all'interessante incontro a Reggio Emilia.
Credo e ne sono fermamente convinta che un uso proprio dei termini al femminile contribuisca di certo all'affermazione di una cultura paritaria fra i generi che mai come ora ha necessita di essere presente.
E quindi bene vengano l'avvocata, la ministra, la giudice e così via.
Il cambiamento linguistico si impone anche per una migliore valorizzazione del genere femminile.
Ad maiora!
La lingua è sì in continua evoluzione, ma mi pare opportuno precisare che si sta degenerando in un maniera alquanto oltraggiosa, avremmo bisogno di "sciacquare di nuovo i panni nell'Arno" come disse il buon Manzoni. Comunque utilizziamo quotidianamente anche il vocabolo "professoressa" , e non solo, e non vedo il motivo sul perché non potremmo utilizzare anche "ingegnera"
in spagnolo esistono le formi femminili: abogada, doctora, directora, presidenta, jueza (giudice/a) y, aunque no estè en el diccionario de la Real Academia Espanola, tambien se dice coloquialmente GENIA! :)
Ho apprezzato molto questo articolo. A proposito vorrei far notare un esempio che illustra in modo inequivocabile il pregiudizio sotteso all'uso del maschile e del femminile nelle professioni: "ostetrico" in ospedale è il medico, "ostetrica", l'infermiere/a. Nella mia professione (faccio parte della Polizia di Stato) le qualifiche sono declinate inesorabilmente al maschile e percepisco come una negazione della nostra identità il fatto che noi donne dobbiamo essere chiamate "ispettore", "commissario" ,"questore", eccetera. Ma mi è anche capitato di rivolgermi a delle professioniste come "avvocata" ed "architetta" ottenendo reazioni quasi indignate in entrambi i casi: questo a mio parere dimostra che la strada da percorrere è ancora lunga.
Buongiorno, vorrei sapere qual è la formulazione corretta dei plurali; mi spiego meglio:mi suona male il plurale di papa ossia papi. grazie
Non ritengo che l'uso di avvocato o di ministro riferito ad una donna sia uno svilimento del ruolo della stessa donna che ricopre determinate cariche. L'indicazione di Ministro o magistrato ecc., rappresenta l'indicazione di una "funzione" e a mio sommesso avviso che quella funzione sia ricoperta da un uomo o da una donna non cambia alcunché. Anzi, non vedo perchè si debba distinguere se un chirurgo sia uomo o donna, è un professionista e questo mi basta, il voler distinguere a tutti i costi, svilisce talvolta la donna stessa!
Quando la lingua vuol, essere un paravento, molti dei giornalisti che si affannano per usare il termine "ministra", che francamente trovo orribile, poi appioppano il pronome gli al posto di le... vediamo di essere seri per favore!
Mi sembra indecente forzare le forme della lingua per decretazione. Nessuno può obbligarmi a declinare un lessema in un modo storicamente non determinato. Considero giusto naturalmente porre il problema, perché è dei nostri tempi, ma trovo inaccettabile imporre la sua soluzione "a tavolino".
In àmbito musicale in italiano si parla sempre di 'Maestro' anche al femminile. Questo è pratica universale in ambiente accademico (anche se in altre lingue europee non esistono, o almeno non si usano, termini equivalenti, bensì piuttosto 'die Artistin', 'die Professorin, 'die Pianistin'...). Buffo è che siano le stesse artiste ad offendersi se vengono chiamate 'Maestra'. Che cos'è, una interferenza semantica? Temono di passare per insegnanti della scuola primaria? E, in tal caso, non c'è forse un problema di fondo che riguarda l'autostima professionale delle donne musiciste? O, più sottilmente, le donne pensano che l'esperienza artistica sia priva di genere? ...In altre paole, 'essere dottoressa' è la stessa cosa che 'essere dottore'? E quindi è meglio distinguere sempre il genere (come nel tedesco) o non distinguerlo mai (come nell'inglese)?
geometra o geometressa? come io sono definita a volte per il lavoro che svolgo.
cavaliere della repubblica o cavaliera della repubblica come da un anno nominata dal presidente Napolitano?
mi piacerebbe molto dare un segnale di femminile ......
La lingua italiana possiede i generi maschile e femminile, assegnati in base al sesso biologico cui fan riferimento. Talvolta i termini fan più riferimento alla particolare professione o al ruolo istituzionale: vengono declinati al maschile anche se si riferiscono a soggetti di sesso femminile. Tuttavia esiste un uso "consuetudinario" della lingua, sia pure a discapito di un purismo (esigenza?rivendicazione?altro?) morfologico di formazione delle parole italiane: e ciò non va nè visto nè interpretato come "maschilismo", che è ben altro.
"Suona bene" un: 'la ministra, la sindachessa...' mah. Il mutamento dello status sociale della donna nel corso degli ultimi decenni non dovrebbe, a mio parere, portare a una facile ed incontenibile interferenza-esigenza sul piano linguistico. Il linguaggio non è, nè deve essere, campo di discriminazione o di estremizzazione della tutela del 'sesso' biologico (...comunque, considerati i tempi, e tenuto conto del sesso psicologico, si è sempre sicuri di centrare il bersaglio??). Concludendo non è davvero più gradito, proprio perchè si fa riferimento ad un ruolo istituzionale o di prestigio, per gli uditori un: il ministro, Sig.ra XX; il segretario Generale, Dott.ssa XX.... che ,per le donne, è un contraltare di tutto rispetto!
In questi giorni trovo francamente insopportabile vedere scritto o sentire "IL presidente della Camera Laura Boldrini". Qui non si tratta neanche di declinare al femminile il sostantivo, ma solo di ANTEPORRE l'articolo. Potrebbe essere più chiaro di così? La resistenza non è grammaticale ma simbolica!!
Regole certe per l'-essa? Eliminare la mostruosa terminazione, che svolge una funzione dileggiatoria e terroristica. Pensiamoci, caso per caso, e chiediamoci quale altra funzione potrebbe avere. Dunque: i nomi in -o non ne hanno bisogno perché il femminile esce in -a : avvocato/avvocata, impiegato/impiegata; i nomi in -e non ne hanno bisogno perché hanno la stessa uscita per il maschile e il femminile: giudice, vigile, insegnante, docente (che in realtà è un participio sostantivato, cioè una forma verbale usata come nominale); oppure hanno acquisito una uscita in -a per il femminile: parrucchiere/parrucchiera, infermiere/infermiera; i nomi con terminazioni di origine greca, come in nomi in -sta, -ta, hanno la stessa uscita al maschile e al femminile: pianista, ginnasta, giornalista, pilota, astronauta. I nomi "di agente" di origine latina, come dot-tore, at-tore, diret-tore, revis-ore, profes-sore, al femminile escono in -trice. E solo questo, in alcuni casi fa difficoltà: infatti, se si può dire attrice, come difatti si è sempre detto, e se si può dire direttrice, è impossibile per la fonetica della lingua italiana pronunciare la parola professrice, oppure revisrice. Provateci, sentite che non va? Bene, in questi casi di incompatibilità fonetica, soccorre, a mio avviso, l'uso storico della lingua italiana, che per alcuni nomi maschili in -tore ha creato, per analogia con i nomi in -o/-a, l'uscita in -tora per il femminile, ragione per cui il femminile di fattore era fattora, e non fattrice. E' per questo che è stato proposto di adottare la forma professora al posto di professoressa, cui fa da ostacolo, però, un uso ormai troppo lungamente consolidato. Il femminile di dottore potrebbe benissimo fare dottrice, parola realmente esistente in latino (doctrix) come appellativo, e parola riutilizzata in età moderna per titolare almeno una delle pochissime laureate (non mi ricordo chi era!). Però dottrice suona un po' esotica e antichistica, motivo per cui preferirei il più "volgare" (in senso linguistico) dottora. Non sono affatto infastidita invece, dal termine corretto direttrice: se a qualcuna richiama la direttrice del collegio femminile basterà pensare che a forza di usarla per altri ruoli direttivi, la nostra percezione diminutiva del termine cambierà.
Declinare al maschile le professioni prestigiose significa soltanto asservire la grammatica agli stereotipi sessisti. A titolo di esempio, riporto quanto scritto sul sito della CGIL a proposito di Susanna Camusso. Notate l'uso dei due generi a distanza di poche righe: il femminile per dire VICESEGRETARIA, il maschile con la promozione a SEGRETARIO. Disdicevole riconoscere a una donna la posizione al vertice!
“Il passaggio nella Segreteria Confederale di Corso d’Italia, diretta da Epifani, avviene nel giugno 2008. Camusso vi entra con delega ai settori produttivi, ma dopo il congresso nazionale della CGIL (maggio 2010) diventa Vice Segretaria Generale e il 3 novembre viene eletta, prima donna nella storia centenaria del movimento sindacale confederale dei lavoratori, Segretario Generale della CGIL.”
www. cgil.it/chisiamo/SegretarioGenerale.aspx
quanto al suffisso in -essa
non mi pare che siano dispregiativi "principessa", "ostessa", "papessa".
per non parlare dell'illustre sovrana che regnò sul Giudicato di Sardegna, la "giudicessa" Eleonora d'Arborea
Il tema di questo mese è uno dei pochi in cui la parola "genere" venga usata sensatamente.
Parlo del "genere" grammaticale, naturalmente. So che questa parola viene usata anche per indicare una cosa diversa, che a che vedere col sesso ma non è proprio il sesso, e che calca l'inglese "gender". Ma che cosa sia non so.
Sentir dire "fare sesso" mi dà fastidio ma devo ammettere che non ci sono molte alernative valide.
Ma se sento una ministra o un'ingegnera dire "genere" al posto di "sesso" mi fa venir voglia di chiedergli: "ma che diavolo vuoi dire?".
Ma che dico "chiedergli"? "Gli" al posto di "le"?
Non è anche questo un argomento importante a proposito del rispetto del genere?
La parità di genere inizia dal linguaggio che costituisce la prima forma di approccio al genere da parte di una bambina o un bambino.
Ritengo, pertanto, che già i testi scolastici debbano prevedere l'uso del genere femminile per qualunque sostantivo anche per quelli indicanti una professione.
Nel Municipio dove sono stata eletta sono l'unica che utilizza il femminile per definire me stessa e le altre colleghe.
è pur vero che il lessico trova ostacoli nella determinazione del ruolo che la donna spesso interpreta con grande professionalità e piglio inventivo ed intuitivo......, ma è anche vero che se non si combatte, prima di tutto, contro l'ostracismo che la vede sempre e comunque sminuita nella personalità e nella condotta......difficilmente si arriverà a superare anche l'ulteriore barriera linguistica.......Si potrebbe, invece, pensare al contrario.....ed affermare che la donna.....è riuscita ad entrare nei meccanismi professionali maschili......allocando in essi.....senza dover puntualizzare di essere una donna,,,,E questa, secondo me, è una conquista!
Sono più che convinta dell'utilità di declinare anche al femminile tutte le professioni e ruoli istituzionali e non. Il non farlo rende palese, in questo caso come in tanti altri, la resistenza all'apparire delle donne nel mondo delle attività, della politica e del sociale tutto. Come se costretti a tollerare le donne in alcuni campi protetti, il non declinarli al femminile sembra essere l'ultimo baluardo, quello però dal più alto valore simbolico.
Anche per le donne stesse questo può essere un messaggio positivo inteso come ulteriore riconoscimento del loro valore e della loro soggetività
Anni fa, dovendo fare un PON sulle Pari Opportunità mi è capitato tra le mani un libro che affronta i saperi e l'attenzione era incentrata soprattutto sulla lingua italiana dove le pari opportunità ed il rispetto per la differenza di genere non sono contemplate. C'è ancora una impostazione androcentrica. In alcuni titoli si fa precedere l'articolo femminile come ad esempio: la parlamentare, la vicepresidente... Altri nomi finiscono in essa come: professoressa, avvocatesssa... In altri casi ancora, si preferisce il titolo maschile al posto del femminile ( e sono proprio le donne a volerlo) in base alla convinzione che esso indichi solo la "funzione" senza far riferimento alla persona che lo svolge. Es. sindaco, presidente... Oppure altre professioni dove il femminile non esiste ed è il caso di: architetto, notaio, ingegnere...Si nota proprio un contrasto tra l'ascesa sociale delle donne e la rigidità della lingua italiana. Secondo me, oggi alla luce dei cambiamenti sociali,al fine di costruire la coscienza di tali cambiamenti, è necessario rinnovare la Lingua.
Grazie per questo intelligente articolo, utile sia per un uso corretto del lessico italiano da un punto di vista linguistico e paritario. Io mi sono laureata in fisica e faccio "il fisico", e sono stata eletta "presidente" del consiglio degli studenti presso l'istituto nel quale lavoro e studio. E tanti intorno a me, pur con un livello culturale molto alto, continuano a chiamarmi usando desinenze al maschile; io stessa fatico ad accettare il mio essere "fisica" e non "fisico" anche per la coincidenza del nome della materia con quello della professione al femminile. Ma mi riesce più facile pensando che, in fin dei conti, la "scienza" è donna ;-)
Portare la differenza di genere in territorio maschile è la vera sfida. Anche il linguaggio serve. Non sono solo parole: è l’espressione di un pensiero, spesso diffuso. Dietro la richiesta di alcune professioniste di essere chiamate con il titolo al maschile può esserci il bisogno di apparire autorevoli come un uomo. Se non è un pensiero questo.
aggiungo solo che sono stata assessorA in un piccolo paese siciliano nella "Primavera" siciliana anni '90....
Secondo me l'uso di un linguaggio non sessista è alla base del rispetto di genere. I termini come avvocato, sindaco, prefetto, ministro, direttore ecc. sono stati spesso preferiti anche dalle donne per autodefinirsi al fine di sottolineare la dignità della propria professione altrimenti svalutata se declinata al femminile. Per non parlare dell'effetto ridicolizzante tipico del suffisso -essa in taluni casi come sindachessa, vigilessa, medichessa ecc. (Da questo effetto sembrano salvarsi solo dottoressa e professoressa). Promuovere l'uso del femminile non solo significa rispettare le regole grammaticali, che già esistono e vengono disattese, ma anche e soprattutto legittimare l'esistenza e il ruolo delle donne nella società dai piccoli nuclei alle istituzioni. Fortunatamente si cominciano a percepire alcuni cambiamenti nel linguaggio dell'informazione e talvolta in quello burocratico. L'impegno dovrà essere comune dalla famiglia alla scuola alla politica all'informazione. Largo dunque a definizioni quali l'avvocata, l'ingegnera,la prefetta,l'ortopedica,la consigliera, la medica,la sindaca, la vigile, la ministra, la giudice , la pilota ecc. e al rispetto di genere che ne consegue.
sono assai d'accordo con Giovanna Covi e sulla esigenza di porsi le domande giuste. Non c'è soltanto una pervicace e sospetta resistenza a liberarsi di abitudini, di linguaggio e di pensiero, che si accompagna alla ben nota espressione:" è una questione superata", spesso pronunciata da chi non ha capito, ma comunque non vuole neppure informarsi, c'è anche una grande e pericolosa confusione. Un esempio? leggete l'articolo
"Così le fiction Rai raccontano le donne di oggi
Dottoresse in crisi, bancarie dal cuore tenero Il palinsesto si adegua alle nuove realtà "
http://iltirreno.gelocal.it/regione/2013/03/12/news/cosi-le-fiction-rai-...
Penso che l'invito a declinare al femminile le professioni o i ruoli tradizionalmente maschili sia purtroppo ancora necessario.
Lo dimostrano le donne che accettano di farsi chiamare "ministro" o, peggio, "il presidente" o "il direttore", quasi che l'uso del maschile aumenti l'autorevolezza della carica.
Un'agronoma
Credo che occorra uno sforzo comune per superare questo nodo culturale. L'immaginario collettivo vede nella forma femminile del linguaggio un sottoprodotto del modello maschile. Se dico, ad esempio, medico e medica: uso correttamente l'italiano; eppure, molte persone avranno da obiettare, perché il termine medica suonerebbe ridicolo al loro orecchio.
Io sono una consigliera comunale e da anni cerco di stimolare gli uffici del mio comune verso un uso del linguaggio più rispettoso e corretto verso il genere femminile. Non è facile e spesso sono proprio le donne ad ostacolarmi, trovando il ridicolo anche dove non è assolutamente avvertibile. Perché? Purtroppo è tristemente spiegabile. Molte donne non si amano, non si apprezzano, debbono continuamente mettersi in gioco e dimostrare di essere all'altezza del loro ruolo, devono diventare le migliori. Agli uomini è permesso anche la mediocrità nel ricoprire una carica, ma ad una donna no. Pertanto "nascondersi o nasconderla" dietro ad un titolo maschile diventa doppiamente comodo.
Sono assolutamente d'accordo con quanto si sostiene nell'articolo.
Credo anche che molto spesso il linguaggio comune superi le vecchie abitudini o convinzioni che circolano in ambito accademico. Mi è capitato ad esempio di leggere in un libro di linguistica che la forma "vigilessa" sia utilizzata per deridere le donne che fanno questo mestiere. Ma io sono figlia di una vigilessa, che da vent'anni fa quel lavoro e alla quale non è mai stato rivolto questo termine in senso dispregiativo, ma anzi come segno di rispetto.
Sarà forse necessario che il mondo accademico si aggiorni e cerchi di precorrere i tempi anzichè arroccarsi su posizioni obsolete?
In ambito protestante è stata coniato il termine "pastora" per indicare il ministerio pastorale esercitato da una donna. In pochi anni il termine è entrato nell'uso comune e non suona più "stonato". La lingua è viva e si adatta alla realtà: le resistenze sono simboliche e non grammaticali, segnalano resistenze culturali sociali religiose etc. Dire e "dare un nome" significa dare pieno statuto di esistenza a qualcosa: è perchè non si vuole dare pieno riconoscimento alle donne nell'esercizio di certe professioni che non si "riesce" a dire ministrA, avvocatA, sindacA, ingegnerA, architettA.....
Sono una pastora evangelica, svolgo cioè un servizio di cura e di guida di una chiesa riformata. Quando anche le donne in Italia hanno potuto accedere al pastorato è stata decisione comune definirci "pastora" ( al singolare) e non "pastore". E' stato difficile: alcune persone mi chiamano la pastore, o pastoressa, o donna pastore, o, signora. Per alcuni è cacofonico, in italiano non esiste, ma la realtà, come è stato già detto è che il pastore è nato come ruolo maschile, anche se in seno alle chiese protestanti c'è il sacerdozio universale fin dalla Riforma di Lutero, ma non è mai stato esteso alle donne se non nell'Ottocento.
Grazie per questo articolo, che mi aiuta a difendere con più cura e competenza un linguaggio che sia inclusivo e che aiuti a immaginare e vivere una realtà più giusta.
Molto interessante, past-ora è una di quelle forme che il volgare italiano ha creato per ovviare all'inconveniente di pronunciare la parola con la terminazione morfologicamente corretta sulla base del latino (past-rice), come il femminile di "fattore" che appunto, nei dialetti in cui è usata, fa "fattora".
Tutte parole che designano ruoli e professioni devono avere anche il femminile, non solo quelle che designano le attività di basso livello o quelle “tradizionalmente” femminili. Che alcune ci possano sembrare "strane” o addirittura “brutte” è solo perché non ne abbiamo l'abitudine, ma la scelta di mantenere la sola versione maschile è puramente ideologica.
Infatti, perché avvocatessa? Il femminile di avvocato fa avvocata, così come il femminile di disoccupato fa disoccupata. Grazie Ambra. La terminazione in -essa è un diversivo furbesco, che divergendo dalla coerenza morfologica della lingua, serve a marcare, con una terminazione mostruosa, la mostruosità di una donna che vuole occupare un ruolo fino ad allora riservato ad un uomo: quando si tratta, beninteso, di un ruolo di prestigio socio-economico. Infatti il femminile di impiegato fa impiegata, e non impiegat-essa.
L'idea che la cultura influenzi il linguaggio è generalmente diffusa; meno accettato è l'inverso ossia che il linguaggio condizioni aspetti della cultura. Molti di studi di antropologia dimostrano come i bambini provenienti da culture diverse (e dunque dotati di lingue diverse) formino alcuni concetti nel corso della crescita, dimostrando di sviluppare più rapidamente il concetto di identità maschile e femminile.
Sintetizzando in maniera estrema, il genere è una struttura culturale, non un destino biologico, ma il prodotto dell'azione sociale che come tale può determinare disuguaglianze fra gli individui. Se pensiamo alla incisività con la quale sia la cultura che il genere sono inscritti non solo nelle strutture sociali ma anche nel pensiero e nel linguaggio, capiamo come diventi importante il concetto di "fare genere", anche attraverso l'attenzione all'uso di un linguaggio non sessista.
vorrei evidenziareche dove le donne sono impegnate in professioni tradizionalmente, o prevalentamente maschili, il genere usato per loro è sempre maschile.
Ma amaramente vorrei sottolineare ancora che il più delle volte alle donne non viene mai riconosciuto il titolo.
Dove lavoro ci si rivolge a me sempre come Signora, mai come Architetta. Quando sono fortunata si appelano a me come Architetto!!
E che dire :
di DOCENTE e INSEGNANTE,
nei convegni o nelle riunioni di Istituto, si fa uso nel plurale :
DOCENTI ( riunione di docenti/ di insegnanti/di professori ma non si segnala mai la presenza di maestre e di professoresse).
Si stendono verbali, si firma e accanto ai nomi si inserisce al massimo:
PROF. _XY___ o INS. XY____
senza definire genere, a scuola dove il ruolo è ricoperto soprattutto da donne, ritroviamo la possibile dicitura
MAESTRA e PROFESSORESSA se si è citate in prima persona
ad es. "La professoressa____ ha spiegato oggi...."
"Oggi era assente la Maestra....."
"E' stata nominata la vicepreside (...)"
E' bene sottolineare che qualunque sia il ruolo di donne lavoratrici, ancora oggi è raro, è difficile, è complicato cambiare l'uso del femminile.
Esempi tanti..sembrano apparentemente quasi 'esagerati', invece confermano una denotazione di tipo culturale, di ancoraggio al maschile che definisce e 'chiama' al maschile
sempre il TUTTO...
la declinazione dei ruoli ha un impatto fortissimo sulla percezione della possibilità che donne e uomini accedano a certi ambiti o livelli professionali.
Lo abbiamo constatato attraverso le risposte date dagli/dalle studenti delle classi che hanno partecipato al progetto "Che genere di cultura ?" promosso dalla Commissione pp.oo. della provincia di Venezia e dall'UST.
Pur ammettendo che certi mestieri sono "per tutti/e", se in un racconto il termine è declinato al maschile quel ruolo non viene mai attribuito concettualmente a una donna .
D'altro canto , se mi viene preannunciata la visita "del direttore", io mi aspetto che arrivi un uomo !
E' sicuramente una resistenza culturale quella delle declinazioni al femminile di molti titoli professionali ed istituzionali, soprattutto in alcuni ambiti e si deve dunque lavorare con costanza nel tempo affinchè si arrivi ad un cambiamento del linguaggio che è anche espressione di un cambiamento culturale! Se oggi dire "ministra", "avvocata", "ingegnera" ad alcuni ed alcune (sì, perchè spesso mi confronto con donne che per prime ritengono brutti certi termini declinati al femminile e anche che sia una pignoleria che va a contribuire alle discriminanti tra uomini e donne!!!) pare brutto, ma continuiamo a lavorarci e declinare al femminile certi titoli, tra qualche anno entreranno nell'uso corrente! Io ci credo e ci proverò con determinazione!
Cominciamo a parlare al femminile, continuiamo a farlo fino a quando non entrerà nel vocabolario e oltre. Allora riusciremo a smantellare anche l'idea dell'inferiorità femminile.
Riusciremo!
Si potrebbe usare esclusivamente il femminile e così recuperare 5.000 di sessismo...
Siete tutte invitate!
...bellissimo vero? anche io ci penso spesso! un duro impatto non privo di risvolti ironici...
Condivido in pieno quanto scritto. Però credo che sia anche una questione di mentatlità nell'uso delle parole. Sono traduttore verso l'inglese, e mi capita spesso di discutere con autrici e autori su temini inglesi usati nella versione originale italiana e sentirmi rispondere che la lingua italiana non è flessibile abbastanza per creare neologismi o per usare parole italiane che nel contesto tecnico o scientifico "stonano" oppure, come in questo caso, adottare forme diverse di quanto stabilite nel tempo "suonano strane", quando è una questione di abitudine. In fondo non è la lingua italiana ad essere inflessibile, ma la mentalità delle persone e una certa sudditanza al linguaggio "più forte", cioè quello stabilito nell'uso e nel tempo (quello maschile).
È giunta l'ora che anche il comune linguaggio diventi grammaticalmente corretto e non sessista.
X Cristina: avvocatessa no infatti, avvocata sì
(pag 15 http://www.funzionepubblica.gov.it/media/277361/linguaggio_non_sessista.pdf )
Le parole sono espressione del pensiero. Fino a quando le professioni prestigiose verranno declinate al maschile, le donne che le esercitano, avranno "usurpato" il posto a un collega dell'altro sesso.
E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago... che si chiami a consulto l'ortopedica!
L'ambito medico è senz'altro tra i più resistenti ad introdurre il genere femminile nelle sue qualifiche. Si può addure il pretesto che la professione medica è nata con gli uomini e che le donne sono arrivate solo nel secolo passato, ma non credo sia tutto qui. E' una questione culturale.
Molte colleghe che hanno sudato sette camicie (e parecchi camici) per emergere in campi storicamente dominati da uomini vivono come una affermazione (si può discutere se a torto o a ragione) l'essere chiamate come gli uomini "chirurgo" o "ortopedico" o "rianimatore". Questa è però una concezione che va cambiata e che probabilmente cambierà visto anche che circa i due terzi dei neolaureati in medicina sono donne.
Grazie Riccardo, ricorda ai tuoi colleghi che Apollo poteva essere Medicus, e Minerva a sua volta Medica. Il nome c'è già, è stato già pronunciato e scritto più di un paio di millenni fa, possono tranquillizzarsi e chiamare mediche le loro colleghe.
sono fortunata: faccio la psichiatra! così come la fisiatra, la dermatologa, la pedriatra, la neurologa, la cardiologa, la nefrologa, ... e così via. Non ho notato difficoltà ad avere consulenze dalla collega ortopedica o dalla ginecologa; per la verità, sento piuttosto spesso chiamare anche la chirurga. Molto raramente, invece, la primaria: poche sono, e a chiamarle al femminile si sentono sminuite. La risolvo con "la responsabile del reparto di..." Il direttore, invece, è maschio anche se donna, non c'è verso, soprattutto se direttore generale...
Concordo con il cambiamento culturale che stenta a decollare finchè si continua a pensare che non ci sono donne che abbiano svolto determinate attività, continuando, di fatto, la cancellazione delle donne. Propongo almeno in parte un articolo apparso lo scorso mese di Eva Cantarella sul Corriere:
"Trotula, “sapiens matrona” si distinse nella Scuola salernitana attorno all’anno Mille. Fu una donna - donna medico in particolare – a scrivere il primo trattato scientifico dedicato alla cosmesi: si chiamava Trotula, ed era un’esponente di primo piano della celebre scuola medica salernitana, fiorita (a Salerno, appunto) nell’XI secolo. Trotula vi insegnò lungamente ostetricia e ginecologia, trascrivendo poi il suo insegnamento in un’importantissima opera dedicata alle malattie delle donne prima e dopo il parto (De passionibus mulierum ante, in et post partum). E, insieme a questa, pubblicò un’opera, considerata minore, nella quale impartiva consigli sull’uso di prodotti cosmetici (una sessantina circa) ricavati da un centinaio di piante e di preparati di origine animale, di cui fornisce l’elenco.
Parla di lei (Madame Trotte de Salerne) il trovatore Rutebeuf (I metà del secolo XIII), Chaucer nei Racconti di Canterbury e fino al XV secolo circolano traduzioni in irlandese, francese, tedesco, middle english, fiammingo e catalano dei due trattati attribuiti alla quasi magistra Salernitana mentre terapie specifiche, come la cura delle lacerazioni dovute al parto, vengono praticate con la garanzia del suo nome."
Inoltre dal XII secolo in avanti abbiamo testimonianza di un nutrito numero di donne esperte nell’arte di Ippocrate: Abella, Rebecca Guarna, Francesca di Romana, fino a Costanza Calenda che nel XV secolo divenne dottore in medicina all'Università di Napoli. Allora è proprio vero che solo dal secolo scorso le donne sono approdate alla professione medica?