Discorrendo su... Parole di Firenze
Articolo
L’articolo che presentiamo è stato letto da Annalisa Nesi nell’ambito della presentazione del volume Parole di Firenze - dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo (Firenze, Accademia della Crusca, 2012) tenutasi il 12 maggio 2013 nella sede della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Annalisa Nesi, docente ordinario di Storia della Lingua italiana (presso il Dipartimento di Filologia e critica della letteratura dell’Università di Siena) si occupa in special modo dei rapporti tra lingua e varietà regionali e dialettali con particolare riguardo all’area Toscana. Dando spazio e voce ai suoi interessi nell’ambito dialettologico, Nesi mette in luce il particolare “incontro” realizzatosi nel Vocabolario del fiorentino contemporaneo e conseguentemente in Parole di Firenze, che ne rappresenta un primo saggio (benché di taglio particolare), tra la metodologia dell’inchiesta su campo, propria della geolinguistica, e la lessicografia dialettale, sottolineandone l’applicazione alla complessa realtà di un centro urbano che, nella fattispecie, è anche la città culla della lingua. Le riflessioni di Nesi si muovono tra la dimensione dell’analisi scientifica della linguista, la partecipazione della ricercatrice su campo e il sentire di una fiorentina per residenza ma non per origine.
Parole di Firenze
Testo letto alla presentazione del volume
13 maggio 2013
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Discorrendo...
Le Parole di Firenze prendono vita da quel progetto di ricerca, per più versi innovativo, che è il Vocabolario del fiorentino contemporaneo (per il quale rimando al sito www.vocabolario fiorentino.it nel portale dell'Accademia della Crusca)[1].
Dell'impresa più ampia nata nel 1994 per volontà di Giovanni Nencioni, diretta da Teresa Poggi Salani e coordinata da Neri Binazzi, lo stesso Nencioni ebbe a scrivere sulla «Crusca per voi»[2] – sottolineando la collaborazione fra l'Accademia e le Università di Siena e Firenze – come si trattasse del culmine di un percorso che si innestava sulla strada tracciata dalla dialettologia toscana e segnatamente dall'Atlante Lessicale Toscano [3] diretto con tenacia da Gabriella Giacomelli, la Cattedra di Storia della lingua italiana di Siena dove insegnava Teresa Poggi Salani (del Comitato di redazione dell'ALT insieme ad altri) e Firenze, sede universitaria di Neri Binazzi.
Hanno collaborato al progetto diversi ricercatori, dei quali dirò via via, ma già nel frontespizio del volume compaiono i nomi di Matilde Paoli, parte integrante del gruppo di lavoro, e Maria Cristina Torchia.
Il pubblico mi scusi se mi viene di “fare la storia”: in genere succede quando passano gli anni e se ne sono viste un po', non propriamente dall'esterno, e poi è un po' un vizio, come la fissazione dell'anagrafe per l'ispettore Fazio, personaggio di Camilleri.
Il volume che qui presentiamo, ma devo dire che mi piacciono le parole più affettuose, dunque del quale ora festeggiamo l'uscita, è appunto un saggio della più ampia impresa del Vocabolario tanto che, per un discorso completo, parlando dell'uno non si può far riferimento anche all'altro: obiettivi e metodo sono i medesimi, com'è naturale.
Qui si tratta, come scrive nella premessa Teresa Poggi Salani, di un «primo saggio» che si presenta come strumento adatto ad una variegata tipologia di lettori e che
si vuole offrire alla lettura a un tempo del curioso di lingua e di chi ha consuetudine col fiorentino e col toscano come dello studioso di storia della lingua e di dialettologia. […] il lettore raggiunge […] la concretezza del fiorentino come lingua “intera”, quindi, come ogni lingua, legato al contatto con le cose di ogni giorno e a quello che a tutti accade nella vita quotidiana [...] [4]
Mi piace, e non è cosa che dico ora per la prima volta, che un raccolta dialettale sia rivolta ad un pubblico differenziato: quando si attinge dalla viva voce dei parlanti si deve, a mio avviso, ritornare ai parlanti perché vi si specchino, vi si ritrovino, o non vi si ritrovino affatto, in modo da creare quel circuito virtuoso che fa della restituzione dei dati alla comunità un momento interattivo.
Chi ha partecipato alacremente a testimoniare il fiorentino, nella conversazione con i raccoglitori è importante quanto gli stessi ricercatori sul campo.
Ricordo qui che si devono a Neri Binazzi le indagini preliminari, a Susanna Bino quelle nei quartieri di S. Croce e S. Frediano, a Silvia Calamai - che parlerà subito dopo di me - quelle nel quartiere di Rifredi, a Ilaria Cangioli quelle nel quartiere di S. Croce, a Maria Cristina Torchia quelle successive ancora a Rifredi e a S. Croce. Sottolineo che tutti si sono formati alla scuola dialettologica di Gabriella Giacomelli.
Ma chi sono i veri protagonisti? I parlanti fiorentini dei quartieri sottoposti all'indagine, scelti secondo il criterio di autoctonia e di età avanzata, garanzia di maggior conservazione quando si lavora in ambito dialettologico. Questi testimoni, non restano nascosti dietro un numero o nell'ombra della parola della raccolta lessicografica, ma emergono nei testi che corredano le diverse voci della raccolta restituendole alla vivezza del parlato.
Ma si badi bene -e ci mette in guardia Neri Binazzi- che non si tratta di “colore” (del quale la fiorentinità linguistica e toscana in genere patisce semmai giudizi all'insegna dello stenterellesco e della giullarata), ma di contestualizzazioni che costituiscono il fulcro della competenza lessicale. Scrive Binazzi:
[…] quella che in alcuni casi può apparire come ridondante concessione al “colore” è in realtà una precisa scelta lessicografica orientata a mostrare il modo in cui il parlante non si limita a rispondere ad una domanda, ma ricostruisce “in tempo reale” una competenza lessicale in cui i modi della contestualizzazione, i ricordi e i riferimenti all'esperienza materiale non costituiscono elementi accessori, ma definiscono il fulcro della competenza lessicale [5].
Un esempio aiuterà a capire: fortòri e ùggia [6]; il primo viene definito, 'acidità, bruciore allo stomaco', la seconda 'fastidio allo stomaco provocato da acidità o da nervosismo' (le voci si rinviano a vicenda). Sono proprio i contesti, le definizioni e le riflessioni degli intervistati, gli esempi di frase offerti che costruiscono la relazione fra le parole in sinonimia. Ma, come sempre accade con le parole, non siamo mai di fronte a completa sovrapponibilità e i sinonimi sono tali solo parzialmente (nel significato, nel tono, nel registro), al contrario di come potrebbe apparire, così i fortori non ti vengono per il nervosismo, l'uggia invece sì.
E di fatto sono già entrata nel vivo del primo punto che mi ha sollecitato come lettore: il metodo che è dietro alle Parole di Firenze e alla base del Vocabolario del fiorentino contemporaneo.
Siamo di fronte ad un caso che non sarà eccessivo definire “unico” per la raffinatezza del metodo scelto che rappresenta un punto di efficace sintesi dei metodi di raccolta dei dati fino ad ora fondati e frequentati dalla dialettologia: insomma, da una parte il questionario (insieme di domande da porgere a testimoni scelti - in questo caso anziani, come abbiamo già detto, dunque conservativi e appartenenti ai tre quartieri selezionati - ) e dall'altra il ricercatore sul campo.
Al centro il testimone, la fonte o l'informatore come si preferisce.
L'inchiesta, metodo di raccolta da sempre collegato agli atlanti linguistici (imprese geolinguistiche nate all'interno della disciplina dialettologica), viene applicata tardivamente dalla lessicografia dialettale (ché si è sempre radunato altrimenti il corpus di un dizionario).
Il felice innesto con l'antropologia porta negli anni '70 all'inchiesta partecipante: il ricercatore si mimetizza nella comunità oggetto di studio e partecipando alla vita di tutti i giorni raccoglie materiale. Così è stato per il vocabolario della Val Graveglia di Hugo Plomteux [7], primo esempio in tal senso. Successivamente, negli anni 80, l'inchiesta sul campo si sgancia dal fissismo del questionario rigido botta e risposta per aprire -ancora con debito alla antropologia e all'etnologia - alla raccolta di etnotesti (fondamentale il contributo della scuola di Jean Claude Bouvier) [8], gemellando appunto i metodi dell'inchiesta linguistica con quelli dell'etnolinguistica, cioè lasciando libertà di parola al testimone oltre la domanda del questionario; dunque l'inchiesta diventa una conversazione su stimoli, un mezzo per testimoniare e capire la comunità e le sue dinamiche, al di là del singolo reperto.
Si badi bene che anche le inchieste della tradizione erano meno rigide di quello che si possa pensare. Faccio un passo indietro nel tempo per ricordare il lavoro sul campo di Paul Scheuermeier per l'AIS [9], atlante italo-svizzero, che restituito nell'arida scientificità delle carte linguistiche, si anima se leggiamo gli appunti di inchiesta del grande ricercatore che tracciano interessanti medaglioni dell'informatore, col quale si capisce che si crea una relazione di trasmissione culturale più ampia e profonda [10].
Non vado oltre su questo punto che molto si dovrebbe dire. Basti quello che ho accennato per considerare quanto di apparentemente occasionale e contingente può diventare metodo. Qui interessa infatti il rapporto fra esigenze di una lessicografia avanzata che risponda a pieno sia alla richiesta di studio che a quella della resa (oggi per lo più sotto forma di banca dati interrogabile), che sia compiuta e fortemente legata alla riflessione del parlante.
Quello che qui abbiamo è il frutto dell'interazione fra il metodo di inchiesta che dà spazio al parlante e la necessità di partire da una base solida.
Prima di soffermarmi su questa base un'altra riflessione: la dialettologia opera per tradizione fuori dalle città, solo con la moderna dialettologia urbana di taglio sociolinguistico si comincia a toccare la variegata e complessa realtà cittadina. Nel passato, tuttavia, a partire dai primi dell'Ottocento, sulla spinta di Melchiorre Cesarotti e anche - ma non solo - con l'intento di venire a concorso per l'arricchimento di una lingua su base indubitabilmente tosco-fiorentina, ma riorientabile attraverso il portato del parlato cittadino verso il suo storico policentrismo, si hanno dizionari dialettali testimoni di città come Milano (Francesco Cherubini), Venezia (Giuseppe Boerio), Bologna (Carolina Coronedi Berti) ecc.
Affrontare oggi il parlato cittadino, eppoi di Firenze, per un dizionario di nuova generazione non può essere che ardimentoso e fortemente rilevante proprio per la scelta dell'impianto e per il mutato clima linguistico dell'oggi quanto al rapporto fra lingua contemporanea, dialetti e fiorentino in particolare.
La base dunque, che c'è sempre dietro un vocabolario e non parte mai dal nulla (ora sarà il dialetto scritto, ora l'ascolto, ora l'autoascolto, il confronto con altri dialetti), qui è base certa: 1870-1897 si pubblica a Firenze il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze (il Giorgini-Broglio come siamo soliti nominarlo fra addetti ai lavori). Si tratta di un dizionario di impostazione manzoniana, sincronico, cioè proprio di quel momento, e per la prima volta non si hanno riferimenti ai testi letterari, ma definizioni e frasi dell'uso a testimoniare la parola in un contesto “reale”, ricostruito dal lessicografo.
Ecco: il Vocabolario del fiorentino contemporaneo è una specie di Giorgini-Broglio dell'oggi, ma, grazie al metodo scelto, i contesti sono dati dai “racconti” dei testimoni tanto da avere appunto quella “vivezza” di cui parlavo all'inizio. In tal senso, poi, proprio il confronto (che è presente con la sigla GB sotto le voci delle Parole di Firenze così come, dove necessario e accompagnato da altri confronti, nelle voci in rete) permette di osservare e valutare in modo puntuale il “percorso” del fiorentino, anche la sua resistenza dal secondo Ottocento ad oggi, creando quella continuità fra le testimonianze di quello che è stato definito non un dizionario di lingua, ma un dizionario molto aderente al dialetto fiorentino di quel momento storico, e la viva voce dei fiorentini nostri contemporanei.
Del Giorgini-Broglio si è fatto uno spoglio critico (se ne sono occupate Ilaria Cangioli ed Elena Pistolesi), ma non volendo limitare il confronto anche per le possibili coincidenze con il resto di Toscana o con la lingua è stato aggiunto lo spoglio di altre fonti (dizionari dialettali toscani e dizionari italiani) al quale ha provveduto Matilde Paoli, redattrice insieme a Neri Binazzi delle voci del Vocabolario del fiorentino contemporaneo in rete.
I testimoni pazientemente e vivacemente (i fiorentini, si sa che parlano volentieri di lingua e sulla lingua che è per loro domestica, a disposizione) collaborano fornendo giudizi, impressioni, affermando, talora con sicurezza notevole, insomma con poche incertezze, le loro opinioni su usi e significati, adeguatezza, spiegazioni di parole, nel fluire di un discorso autonomamente organizzato. Vediamone un esempio nel quale si apprezzano anche gli aspetti dialogici:
Matta testa dell'agnello macellato, privata del cervello, venduta come frattaglia
SF [San Frediano] RI [Rifredi] GB [Giorgini-Broglio]
→ testicciola
Sì, l'è la matta. L'è la matta, perché la testa dell'agnello, vendan la testa, però i' cervello lo levano. Allora l'è una testa senza cervello, e le chiaman le matte, capito? Le vendevano così, da sole. / Noi le si facevan o lesse.../Boone!/ E poi la mi' mamma la le friggeva. / Fritte...La mi' mamma 'nvece la le tagliava a striscine, la le faceva tipo trippa. / […] Noi si chiamava testicciola. / Matta, testicciola... […] Matta però un l'aveo ma' sentito... / Sìi! No no, anche matta. […] / La testicciola c(i) ha i' cervello. 'Nvece la matta, no. / La un c(i) ha il cervello... / Un c(i) ha i' cervello, lo levano …/ Perché i' cervello lo vendan a parte. / Perché lo vendan da solo. Invece la testicciola... / I' cervello costa caro! Quando si dava a' bambini l'era un... un... prelibaato, 'somma. / I' cervello? Accidenti! / Io gnen'ho daho a i' mi' ragazzo, c(i) ha quarantasett'anni. / Quande si faceva i' fritto, di cervello, animelle... Ora vede, ora questa roba un si po' più mangiare. L'è piena di colesterolo! Ma un si sapeva mica, prima.
[...] [11]
Per inciso qui mi aspettavo ed ero curiosa di trovare un modo di dire a me noto: ridi ridi, tu fa' come le testicciole, ridan la su morte! detto a chi ride e non sa cosa lo aspetta e riferito all'esposizione, nelle macellerie, delle teste di agnello prive di vello e di pelle, che appunto par che ridano. Ma non c'è ed ho imparato matta che non conoscevo. Ma io non sono di qui, son di fòri proprio, come afferma un informatore di Rifredi, nel senso di non essere competente [12], ma anche di non essere fiorentina.
Tornando all'argomento: se il Giorgino-Broglio nasce come dizionario di lingua, ma risulta poi municipale (rubando la parola a Isaia Graziadio Ascoli), insomma dialettale e cittadino insieme, il Vocabolario fiorentino e dunque le Parole di Firenze sono chiaramente nati per entrare nella dimensione dialettale di questa città. Per la comunità fiorentina si tratta di una dialettalità speciale che si lega alla storia “molto fiorentina” della nostra lingua, tanto speciale per una diversa continuità fra i due poli rispetto ad altre città fuori dalla nostra regione linguistica; e qui, città culla di lingua, qui, luogo dove la differenza fra dialetto e lingua è resa attribuendo a quest'ultimo l'etichetta di vernacolo o di fiorentinaccio, non si parla facilmente di dialetto. Spigolando fra i commenti metalinguistici degli informatori si ricava proprio questo quadro.
Insomma, tutt'al più, quel “parlar male” e quel “parlar bene” che la Toscana linguistica condivide di fatto con l'Italia mediana (l'Umbria ad esempio) dove la distanza fra lingua e dialetto è senz'altro minore rispetto ad altre parti d'Italia.
Città complessa Firenze nell'antico: pensiamo al fenomeno dell'inurbamento dopo la peste, con la presa d'atto della differenza città campagna resa efficacemente in ambito letterario; in un passato recente all'inurbamento soprattutto dal Mugello ma non solo (mi riferisco, ad esempio, al quartiere periferico di Legnaia che oggi è tutt'uno con la città, ma che è stato periferia agricola dove gli anziani ancora dicono “vo a Firenze” per dire “vado in centro”); città di immigrazione da altre regioni fino all'oggi (per quanto in misura inferiore e di altro tipo rispetto ai centri industriali della stessa Toscana).
Città, non so se accogliente, ma certamente omologante sul suo modello.
Conserva presso la popolazione anziana che è poi quella intervistata, l'idea di una divisione in quartieri dalle dinamiche diverse, socialmente differenziati: si pensi alla realtà dell'Isolotto com'è nata e come si è trasformata, ma anche alla divisione dentro le mura, il di qua e il di là d'Arno.
E questo lo troviamo nelle parole perché in alcuni casi si trovano in un quartiere e non in un altro; si sa però che può semplicemente trattarsi di un fatto occasionale, legato alla competenza individuale. A Santa Croce e a Rifredi si conosce o almeno è rimasta la competenza - probabilmente anche più diffusa - di far querciola 'fare una capriola, cadere; mettersi in posizione verticale con la testa in basso e i piedi in alto' (già nel Giorgini-Broglio), ma a Rifredi si ha anche potrei far querciola 'in risposta a chi chiede soldi, intendendo che non se ne hanno', cioè dalle tasche non cade nulla [13].
Questo esempio mi traghetta sul secondo punto: io avevo sentito dire quercia ritta e solo nell'accezione di fare la verticale, per usare un termine della ginnastica artistica.
Sono pratese: forse, per le mie origini un fiorentino non vorrebbe che mi confrontassi con la sua lingua visto poi che arrivata qui sono stata spesso redarguita per certe mie particolarità linguistiche. Insomma vengo da quella città considerata rozza dai fiorentini e alla quale i pratesi hanno guardato sempre con una certa invidia, con un certo risentimento e di cui patiscono la superiorità culturale: penso naturalmente più per la diversità in tempi moderni che per la memoria del sacco di Prato, o per la precedente sottomissione della città con sua conseguente fiorentinizzazione anche linguistica.
Con le Parole di Firenze mi sono un po' consolata perché ho trovato molte coincidenze, anche se mi hanno interessato le divergenze: bada di mezzo per 'togliti di mezzo' [14] in pratese suona bada di lì, e bubare 'brontolare, protestare in continuazione ma senza alzare la voce', reperito a S. Frediano (anzi in S. Frediano) [15], l'ho sentito per la prima volta a Firenze. Così minuzzolo per 'briciola di pane, e piccola quantità' al quale corrisponde il mio briciolo. Del resto a ben guardare a briciola, italiano a tutti gli effetti e diffuso secondo l'ALT in gran parte della regione, rispondono endemismi come mollica-mollicola (nel senese meridionale e nell'aretino lungo tutta la Valdichiana, pescola e pescolo in un area di confine fra il pistoiese e il pisano) e minuzzolo è propriamente fiorentino, intendendo non la sola città, ma la sua campagna da Pozzolatico a San Donato al Valdarno più prossimo [16]. Dunque una parola dialettale che non ha avuto forza di penetrare una toscanità vasta, come in altri casi, (figuriamo l'italiano!) e dunque destinato a persistere solo in loco.
Nella fraseologia espressiva, nei modi figurati, le coincidenze sono consistenti; la maggior divergenza si ha nelle parole che si riferiscono alla realtà concreta e quotidiana, cioè in quella stessa area di competenza alla cui italianizzazione linguistica di fatto il fiorentino non ha contribuito. Ecco alcuni esempi che mettono a confronto fiorentino e pratese, ciascuno resistente nel proprio uso linguistico: ballotta vs ballotto 'castagna bollita', baracchina vs arbolina, 'candeggina', cióccia vs puppa 'mammella', ficàttola vs donzèlla 'pasta di pane fritta', diòspero vs pómo 'cachi', gazzòzzola vs palla 'frutto del cipresso', girare vs dar la volta 'inacidire del vino' (che si dice anche della farina che comincia ad avere le farfalline), unto/ sugo di gomiti vs olio di gomito. Aggiungo qualche esempio che mi appare tutto fiorentino: curare il freddo, il caldo ecc. 'essere sensibile al freddo, al caldo' ecc., dóddo 'persona stupida, insignificante e un po' lenta' e fare il dóddo 'fare il finto tonto', cimbardoso 'di persona che si dà arie, che si dà padronanza'. Cimbardosa, detto di una signora particolarmente doddona (traducendo in pratese), lo sentii per la priva volta da un amico turco che da tempo abitava Firenze: forza attrattiva delle parole espressive tanto azzeccate da essere intraducibili e dunque accolte.
Ma Cecco toccami (al quale potrei aggiungere il seguito: mamma Cecco mi tocca, toccami Cecco la mamma la un vede, evidente testimonianza di un comportamento malizioso, reso necessario dalle regole sociali di un tempo) mi appartiene, cioè appartiene anche alla mia comunità di origine che, non avendo altro di importanza paragonabile ricorre a Firenze anche in altri casi: l'erba voglio non cresce neanche nel giardin di Boboli.
Certo consola quelli della provincia trovar qui garbare per piacere, considerato da alcuni fiorentini (e qui sarà una questione di livelli) rustico e dunque pratese, o anche pratese, ma sarà la solita distanza che in genere viene presa da parole o espressioni che son avvertite “parlar male “ e dunque... Certo è che noi arriviamo anche a disgarbare per 'non piacere': Ti garba quello che ti sta dietro? Ma ... garbare proprio … diciamo che un mi disgarba (possibile dialogo fra due ragazze pratesi a proposito di un corteggiatore).
E se siamo d'accordo, come gli altri toscani, su popone, cannella, acquaio, il petonciano di artusiana memoria non ci tocca proprio e anche i fiorentini qualche distinzione la fanno:
I petonciani! sono le melanzane! Tuttora, si trova sui' coso, sui' vocabolario! (R. si dice ancora?) In casa e' posso dire: Pigl'un petonciano. Fori: Mi dà una melanzana, sennò tutti un mi capiscano! [17]
Allora il fiorentino non è un dialetto finché i non fiorentini capiscono!
Espressioni come fare l'occhio pio 'ammiccare stringendo un occhio' (che estenderei a avere gli occhi pii, cioè che si chiudono per il sonno) e non fare pio 'non avere alcuna reazione, stare zitto', Maso delle ragionacce, sembrare la vecchia dell'aceto, essere centori, mettere tutti i cenci alla finestra, andare bene a mano a uno, passare da Roma per il Mugello, mi appartengono da sempre, pur con qualche variazione. Naturalmente si dovrebbero fare distinzioni sulla diversa tipologia di queste espressioni, ma non è questo il momento.
Ecco che entro nel terzo punto e concludo. Il fiorentino di oggi: dialetto e non propriamente modello di lingua?
Il cambiamento dei poli che orientano la lingua - segnatamente il Nord industriale e Roma - mette Firenze al margine nella possibilità di contribuire all'italiano contemporaneo, e i toscani e i fiorentini stessi danno i primi cenni di una diversa consapevolezza linguistica: si è visto, con altri tipi di indagini come quella della Lingua delle città (nettamente orientata all'italiano di uso comune, informale) [18], qualche cedimento, qualche inclinazione a riconoscere un dialetto anche nella Toscana linguistica propriamente detta.
Ciò non tocca il fatto che Firenze, ché di questa città stiamo ora parlando, cioè i fiorentini abbiano a loro disposizione una notevole ricchezza espressiva, una varietà di scelta che altri italiani hanno nel loro dialetto, e che proprio a questi italiani “bilingui” la toscanità e la fiorentinità possano apparire ricchezza, forbitezza, capacità di espressioni efficaci, fino a creazioni del momento, ma anche un po' obsolete o di sapore antico, libresche, simpaticamente collodiane, ormai ingessate nel passato rispetto al dinamismo diversamente orientato dell'italiano di oggi.
Anche in passato tuttavia da più parti si avverte una pur speciale dialettalità del toscano e fiorentino. Ricordo qui De Amicis nell'Idioma gentile (1905: 54-55) che nella garbata rampogna a «una schiera di ragazzi di diverse regioni» include anche i ragazzi di Firenze:
Per insegnar la lingua ai tuoi fratelli d'Italia, che ti riconoscono maestro dalla nascita, devi guardati anche tu dai dialettismi [...] [19]
e fra gli esempi lessicali porta sortire 'uscire', tornare per 'andare ad abitare', ambedue presenti nelle Parole di Firenze, ma appunto a livello dialettale o di italiano locale, che altrimenti può succedere di non essere capiti, come nel caso di petonciano.
E Fedele Romani nei suoi Toscanismi [20] cita - oltre ai già visti sortire e tornare - briaco 'ubriaco', conoscere per 'riconoscere', ignorante per 'maleducato' che sentiva dalla viva voce dei fiorentini nel suo lungo soggiorno, ma tutti presenti nel Giorgini-Broglio e saggiati per il Vocabolario del fiorentino contemporaneo e certamente ben saldi ad oggi: continuità e resistenza.
Vorrei ritornare un momento e per concludere alla scuola dialettologica fondata - proprio a Firenze! - da Gabriella Giacomelli e poi al felice innesto con l'impostazione di studi sull'italiano - penso soprattutto all'italiano regionale - di Teresa Poggi Salani. È da questa linea, incline ad attribuire il dialetto (seppure di diversa natura) alle parlate toscane e allo stesso fiorentino, da questo filone di studi - intorno al quale si sono radunati soprattutto giovani allievi non fiorentini (a parte Neri Binazzi, fiorentino speciale) - che escono imprese come questa.
E proprio con le parole di Gabriella Giacomelli vorrei ribadire il concetto di una dialettalità speciale, ma comunque di una dialettalità della Toscana e di Firenze:
La difficoltà nella distinzione lingua dialetto è particolarmente notevole nel caso del lessico. Fonetica e morfologia sono state infatti incanalate da secoli in schemi normativi più o meno rigidi: contravvenire a questi dicendo, secondo il tipo vernacolare del fiorentino odierno, i ffoho o le' la mi disse, equivale a mettersi esplicitamente fuori dalla lingua nazionale. Ma nel campo del lessico una tale distinzione non è sempre facile.
Aggiungo: naturalmente per questioni di storia, di proposte di idea di lingua e di formazione della lingua letteraria.
La citazione è tratta da Giacomo Devoto e Gabriella Giacomelli, I dialetti delle regioni d'Italia [21]: siamo nel 1972 e il progetto dell'Atlante Lessicale Toscano si sviluppava proprio fra il 1971 e il 1973. Si fonda la dialettologia toscana di cui oggi qui apprezziamo la continuità, quella continuità che in certo modo la stessa Giacomelli mise in evidenza collegando l'ALT al Vocabolario del fiorentino contemporaneo in una recensione a quello che di fatto è il saggio, redatto da Neri Binazzi, di fondazione di quest'impresa che qui apprezziamo in concreto [22].
Torniamo così al bel risultato delle Parole di Firenze e del Vocabolario del fiorentino contemporaneo, ricerca preziosa che si offre ai cittadini e agli studiosi. I primi si potranno confrontare con il proprio parlato, i secondi potranno misurare la distanza fra la lingua contemporanea e fiorentino che laddove non coincide, o non coincide più, sarà da iscrivere al dialetto, almeno come ambito d'uso, ché per la matrice dell'italiano letterario e per il fondo di fiorentinità che la nostra lingua mantiene, il discorso si snoda diversamente.
Note:
[1] Segnalo che la parte informatica si deve a Giovanni Salucci - Progettinrete srl. e che la progettazione è del team coordinato da Marco Biffi del quale hanno fatto parte Neri Binazzi, Matilde Paoli, Giovanni Salucci, oltre allo stesso Biffi.
[2] G.. Nencioni, Spigolature, in «La Crusca per voi» n. 16, aprile 1998, pp. 15-16.
[3] Atlante lessicale toscano (ALT) diretto da Gabriella Giacomelli (Comitato di redazione: Luciano Agostiniani, Patrizia Bellucci, Luciano Giannelli, Simonetta Montemagni, Annalisa Nesi, Matilde Paoli, Eugenio Picchi, Teresa Poggi Salani). Banca dati in rete: serverdbt.ilc.cnr.it/altweb
[4] Parole di Firenze dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo, a cura di Teresa Poggi Salani, Neri Binazzi, Matilde Paoli e di Maria Cristina Torchia, Firenze, Accademia della Crusca, 2012, Premessa, p. 3.
[5] Parole di Firenze, cit., Introduzione, p. 10.
[6] Parole di Firenze, pp. 173 e 438.
[7] Hugo Plomteux, I dialetti della Liguria orientale odierna, Bologna, Pàtron 1975. Sul metodo e sulla sua validità lo studioso belga si era espresso in una breve e significativa comunicazione al congresso internazionale di romanistica nel 1974 (Hugo Plomteux, Per un indirizzo più etnografico della dialettologia in Italia, in Atti del XVI Congresso internazionale di linguistica e filologia romanza, Napoli, Gaetano Macchiaroli, vol. II, pp. 137-150).
[8] Jean Claude Bouvier et alii, Tradition orale et identité culturelle. Problèmes et méthodes, Paris, CNRS, 1980.
[9] Karl Jaberg-Jakob Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, 8 voll., Zofingen, Ringier & Co., 1928-1940.
[10] Si veda, ad esempio, Paul Scheuermeier, Il Piemonte dei contadini 1921-1932, vol.I, a cura di Sabina Canobbio e Tullio Telmon, Ivrea, Priuli & Verlucca, 2007.
[11] Parole di Firenze, alla voce matta, p. 267.
[12] Parole di Firenze, alla voce fòri.
[13] Parole di Firenze, pp. 376-377.
[14] Parole di Firenze, p. 49.
[15] Parole di Firenze, p. 85.
[16] Atlante Lessicale Toscano. Parole di Toscana: serverdbt.ilc.cnr.it/altweb
[17] Parole di Firenze, alla voce petonciano, p.336 (R., con la frase che segue, indica l'intervento del raccoglitore).
[18] La lingua delle città (LinCi) è un progetto finanziato dal MIUR (PRIN 2000 e 2008) che coinvolge più università, diretto da Teresa Poggi Salani e Annalisa Nesi, la cui banca dati di prossima pubblicazione, sarà a breve preceduta da una raccolta di saggi: La lingua delle città. Raccolta di studi a cura di Annalisa Nesi, Firenze, Cesati, 2013 (collana Italiano in pubblico diretta da Ilaria Bonomi, Massimo Fanfani e Nicoletta Maraschio).
[19] Edmondo De Amicis, L'idioma gentile, Milano, Treves, 1905, p. 54-55.
[20] Fedele Romani, Toscanismi, Firenze, Bemporad & Figlio, 19072, pp. 32, 33, 26, 28, 29.
[21] Firenze, Sansoni, p. 69.
[22] Gabriella Giacomelli, RID (n. XXII, 1998, pp. 310-311), scheda a Neri Binazzi, Per un vocabolario dialettale fiorentino, «Studi di lessicografia italiana» 13, 1995, pp. 183-252.
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