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Il MIUR dà un calcio all'italiano


Gennaio 2018

Claudio Marazzini

 

L’Accademia della Crusca ringrazia: il merito di aver difeso l'italiano, in quest’occasione, va riconosciuto integralmente e incondizionatamente al “Sole 24 Ore”, cioè a un giornale che per i suoi interessi economici e per il legame con il mondo industriale non sembrerebbe schierato per partito preso nella difesa dell’italiano. Invece le cose sono andate proprio così, e riteniamo che questa scelta sia di buon auspicio per favorire un ragionamento più equilibrato sui temi della politica linguistica che travagliano il nostro paese.

I fatti, prima di tutto. Sabato 30 dicembre, sulla prima pagina del “Sole 24 Ore”, Annalisa Andreoni ha pubblicamente denunciato la scelta improvvida del Ministero dell’Università, che ha chiuso il 2017 dando un bel calcio all’italiano: il 27 dicembre il MIUR ha diffuso l’attesissimo bando per il nuovo Prin (si tratta del bando per il finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale), e ha imposto che la domanda debba essere compilata soltanto in lingua inglese.

La condanna di Annalisa Andreoni è assolutamente condivisibile e necessariamente molto severa. Così scrive la studiosa:

 

È grave che il Ministero dell’istruzione della Repubblica italiana tratti la lingua nazionale alla stregua di una lingua minore, rendendone facoltativo l’uso nella stesura di progetti che hanno nel loro nome l’aggettivo ‘nazionale’. [...] La promozione e la ripresa del Paese passano anche da questo: dal rispetto che si ha della propria lingua. La scelta di rinunciare alla lingua nazionale, nella sua insensatezza, ha conseguenze negative sul piano culturale ed economico, poiché rischia di rendere vani gli sforzi di tutti coloro che operano per il rilancio del nostro Paese. Perché mai dovremmo affaticarci a promuovere l’italiano in giro per il mondo – e con la lingua viaggiano anche la creatività e la produzione italiana, non dimentichiamolo – se a considerarlo inutile sono coloro che per primi dovrebbero difenderlo? Spiace dirlo, ma è l’ennesima prova del provincialismo dell’attuale ceto politico,  drammaticamente inadeguato alle sfide che abbiamo di fronte, che scambia per internazionalizzazione la dismissione dell’identità nazionale. Ci permettiamo di dare un suggerimento al Ministero dell’istruzione: visto che l’italiano per loro è evidentemente una lingua inutile, la prossima volta scrivano il bando direttamente in inglese; forse, allora, riusciremo a prenderli sul serio.

 

Su questa materia, il MIUR si muove da anni con incertezza. Prima di questo bando, si ebbero il bando PRIN 2015 e il bando PRIN 2012. Come si vede, questi bandi sono intervallati da periodi di silenzio, perché i finanziamenti alla ricerca dell’università non vengono erogati tutti gli anni. La serie è dunque quella che ho detto: 2012, 2015, e ora 2017. Nel 2012, si richiese una domanda compilata in lingua italiana e in lingua inglese. In questo modo si affianca alla lingua nazionale la lingua con la quale il progetto può essere più facilmente sottoposto al giudizio di studiosi stranieri. Nel 2015 la scelta fu ancora differente: si lasciò la libertà di adottare l'inglese o l'italiano. Anche questa soluzione è interessante: affida la scelta alla progettualità di chi presenta la domanda, salvaguardando gli ambiti in cui un giudice competente deve per forza conoscere la lingua italiana, come accade per molte discipline umanistiche. Nel 2017 invece, come abbiamo visto, si è passati integralmente all'inglese.

Le incertezze nella materia della lingua dei bandi non sono monopolio del Miur. Esiste un incredibile precedente. La Regione Piemonte, nel 2008, ha diffuso un “Bando Scienze umane e sociali”, pubblicato sul supplemento ordinario n. 2 del Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte n. 48 del 27 novembre 2008. In quell’occasione fu reso obbligatorio l’uso dell’inglese. Il bando, a differenza della domanda richiesta ai concorrenti, era in italiano (come del resto è ora in italiano il PRIN  2017). Nel caso della Regione Piemonte, la scelta era tanto più ridicola, se si considera che le ricerche presentate proponevano (come ovvio, trattandosi di un bando regionale), uno stretto riferimento alla cultura del Piemonte, per cui i revisori anonimi appositamente individuati avrebbero pur dovuto capire qualche cosa di italiano, e forse anche di dialetto, di provenzale, di franco-provenzale e di francese. La loro capacità di leggere domande redatte in italiano sarebbe stata semmai una garanzia di giudizio competente ed equilibrato. Questo è probabilmente un caso-limite, e si sperava che fosse acqua passata, ma la scelta del MIUR per il PRIN 2017 ce l’ha fatta tornare in mente, con tanto maggior disappunto, se pensiamo che nel febbraio del 2017 è stata resa pubblica la sentenza n. 42 della Corte Costituzionale relativa all'equilibrio tra inglese e italiano nell'università.

La sentenza non si riferisce ai bandi di ricerca, però i principi generali che la Suprema Corte ha definito in maniera inequivocabile fanno riferimento proprio all’assoluta necessità di preservare la lingua italiana all'interno degli istituti universitari. Ciò vale anche per le domande dei finanziamenti. Converrà anzi richiamare i principi a cui ha fatto riferimento la Corte Costituzionale.

Scrive la Corte che la lingua italiana, nella sua ufficialità, e quindi primazia, è vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 della Costituzione (quella Costituzione di cui nel gennaio 2018 festeggiamo i 70 anni). La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione possono insidiare tale funzione della lingua italiana, ma tali fenomeni non devono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità: al contrario, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, ma diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé. La Corte prosegue affermando che la “centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana si coglie particolarmente nella scuola e nelle università”.

Dopo una sentenza del genere, sembra persino incredibile che un ministero della Repubblica Italiana abbia potuto disinvoltamente decidere di bandire la lingua italiana dalle domande di finanziamento per la ricerca di interesse nazionale. Il giudizio non può essere se non quello espresso con la massima chiarezza dal “Sole 24 Ore”.

Del resto, sempre a proposito dell’attenzione del MIUR per la lingua italiana, potremmo richiamare un intervento di Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” del 22 dicembre 2017 relativo all’inglese nei concorsi per diventare insegnante. Scrive Di Stefano: “Il nuovo concorso per aspiranti professori nelle scuole secondarie, che verrà bandito in gennaio dal Ministero, prevede per tutti i candidati un colloquio in lingua straniera. Se, come viene anticipato, si richiederà la conoscenza dell’inglese almeno al livello B2, vale la pena porsi alcune domande. Primo, fermo restando che l’inglese è la lingua più parlata in Europa, siamo sicuri che a Milano o a Palermo un insegnante di storia, di italiano, di musica o di matematica capace di ordinare con scioltezza una birra scura a Soho sia un insegnante migliore di un altro che nella stessa situazione mostri qualche impaccio?”.

Insomma, l’amore per l’italiano certamente alberga nelle stanze di Viale Trastevere, come dimostrano le Olimpiadi dell’italiano e la nomina nel luglio 2017 della Commissione coordinata da Luca Serianni incaricata di elaborare “un piano di interventi operativi volti a migliorare le competenze, conoscenze e abilità nella lingua italiana delle studentesse e degli studenti della scuola superiore di primo e secondo grado”; ma viene il dubbio che in quelle stanze e in quei lunghi corridoi alberghi un amore per l’inglese molto molto più forte, in barba all’art. 9 della Costituzione e alle indicazioni della Suprema Corte.

 

 

Ho una lunga esperienza in appalti internazionali e vorrei utilizzare il paragone per portare argomentazioni "tecniche" contro la scelta del MIUR. Innanzi tutto, il punto fisso è che la lingua (principale) in cui viene richiesto di rispondere è la lingua ufficiale dell'appalto, è anche la lingua in cui viene redatto il bando, in cui vengono redatti tutti gli atti e in cui viene gestito l'oggetto dell'appalto. Trattandosi di fondi erogati e gestiti da Ente italiano e diretti a soggetti italiani, a mio parere non c'è motivo di utilizzare, anche solo in forma secondaria, lingue diverse dall'italiano. Di solito, l'utilizzo di una lingua straniera ampiamente diffusa (per esempio inglese, francese o spagnolo in base all'area geografica) è un fatto di accessibilità da parte dei soggetti interessati e di gestione dell'appalto da parte di soggetti internazionali (enti finanziatori, supervisori, camere arbitrali). Dove la lingua straniera possa essere considerata una seconda lingua ufficiale (esempio, in Africa), questa è l'unica lingua dell'appalto. Altrimenti, come accade di solito in Europa, la lingua ufficiale dell'appalto è la lingua locale. Succede a volte, soprattutto nei paesi balcanici, che l'ente appaltante fornisca la documentazione di appalto e permetta la presentazione della documentazione da parte dei soggetti interessati in due lingue (es. locale e inglese), con la clausola che in caso di discrepanze, prevale la lingua ufficiale, cioè quella locale. Per contro, in Europa, si pone il problema di definire una lingua ufficiale o universalmente conosciuta e riconosciuta per il mondo del lavoro, l'industria e il commercio in un'area con diversità linguistiche notevoli ma con legami socio-economici molto stretti. Ciò detto, al di là della specifica questione di difendere la lingua italiana, che condivido pienamente, ritengo che la scelta del MIUR non sia coerente con l'ambito del bando che ha emesso.

L'uso ed il prestigio internazionale di una lingua vanno di pari passo con la forza politica del Paese che "è titolare" di quella lingua.
Nel passato, anche remoto, la crema del sapere umano (scientifico - innanzi tutto - ed ovviamente anche letterario, filosofico, musicale...) era espressa - oralmente e per iscritto - in ITALIANO, in latino ed in greco.
Anche nei secoli bui per l'Italia, durante i quali "politicamente" contavamo meno del "3 di mazze", la nostra cultura e la nostra lingua erano la stella polare per tutto il mondo civilizzato. Eravamo politicamente "deboli", ma sempre "politicamente" determinanti nello scacchiere europeo e mondiale. E culturalmente eravamo ere geologiche avanti a chi ci era secondo. I grandi spiriti nascevano soprattutto in Italia.
Probabilmente, l'essere al centro del Mediterraneo - che a sua volta era ancora fino ad un paio di decenni fa il centro del mondo - dava all'Italia e alla lingua italiana una condizione di vantaggio e supremazia culturale.
Poi la decadenza. I nostri politicanti hanno aperto acriticamente le braccia alla globalizzazione, rinunciando a governarla, anzi, lasciandosi da essa trascinare come da un fiume di fango.
Tirando le somme. La chiave di lettura è data dal concetto in premessa: l'uso ed il prestigio internazionale di una lingua vanno di pari passo con la forza politica del Paese che "è titolare" di quella lingua.
Chi conta nel mondo? Gli USA, il Regno Unito, l'Australia, l'India, la Russia, la Cina, i paesi arabi. Una preponderanza di Paesi anglosassoni, ed altre tre aree di influenza. Chi conta in Europa? L'asse Franco-Tedesco! Il mediterraneo è stato marginalizzato. La iper-corrotta classe politica d'Italia, ha assunto da decenni il ruolo di "servo sciocco" dei poteri forti. Potentati che sono di volta in volta: le banche; l'UE e la BCE (col suo demoniaco €uro); la Germania egemone; la Francia opportunista ed imperialista; la Nato; il WTO... ecc... ecc...!!
Profetico il nostro Dante (VI Canto del Purgatorio):
"Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!"

Questo schiribizzo del MIUR - di marginalizzare un passo alla volta l'idioma di Dante, Petrarca e Boccaccio - altro non è che l'ennesima MARCHETTA di una classe politica "piegata" ad angolo retto, ed a pagamento, rispetto ai poteri forti che saccheggiano "benvenuti" l'Italia da almeno due decenni...!!
L'Accademia della Crusca sia "l'Ettore Fieramosca" che atterra La Motte, brandendo la scure, vincendo la Disfida contro lo straniero.

Caro Collega,
so di unirmi al coro di protesta dei tanti che ti hanno telefonato e scritto, nella tua veste di presidente della Crusca. Accantonandola nei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, il MIUR ha in sostanza decretato che questa lingua è inadatta alla Scienza. Vulnus peggiore non si poteva infliggerle.
Cordialmente,
Loriano Zurli
(cattedra di Filologia latina, Università di Perugia)

Vorrei sapere se in Francia, in Spagna o in Austria i rispettivi ministeri omologhi del nostro si comportano allo stesso modo.

Non saprei i ministeri, ma in Francia l'Agence Nationale de la Recherche, che si occupa appunto di finanziare la ricerca, richiede progetti in inglese, anche nelle discipline umanistiche. La valutazione avviene almeno parzialmente tramite valutatori francesi, che però sono tenuti anch'essi a valutare in inglese.
Non saprei dire se questo avviene per tutti i progetti e anche per quelli esclusivamente "nazionali".
Il CNRS sostiene fortemente la necessità di pubblicare in ambito internazionale e l'uso dell'inglese.
Il fatto che questo avvenga in Francia è però abbastanza rivelatore.

Cari Colleghi,

come segretario del GSPL, il gruppo di studio sulle politiche linguistiche della SLI, segnalo che tra brevissimo, intendo in giornata, uscirà un comunicato ufficiale preparato dal Presidente, Gabriele Iannàccaro, di concerto con i membri del Direttivo.

Un cordiale saluto a tutti,

Federico Gobbo
Amsterdam / Milano-Bicocca / Torino

Mi permetto di incollare il testo, forse un po' lungo, della dichiarazione del GSPL - SLI sul Tema del mese.

Federico Gobbo
Segretario del GSPL - SLI

DICHIARAZIONE

Il Gruppo di Studio sulle Politiche Linguistiche (GSPL) anche a nome della Società di Linguistica Italiana denuncia con forza la gravità della decisione ministeriale di imporre l’uso del solo inglese nella domanda per ottenere finanziamenti su progetti universitari di interesse nazionale per come appare dall’ articolo 4 comma 2 del bando diffuso dal MIUR il 27 dicembre.

Una disposizione che introduce l’impiego obbligatorio ed esclusivo di una lingua straniera in un atto ufficiale dello Stato contrasta con la recente sentenza n. 42 della Corte Costituzionale relativa all’equilibrio tra inglese e italiano nell’università e alla necessità di preservare l’uso dell’italiano come lingua della scienza e dell’istruzione superiore. Pare particolarmente grave non tanto l’impiego anche dell’inglese per la presentazione di domande di ricerca, giustificato dalla necessità di poter sottoporre a valutazione le domande anche da parte di commissari provenienti da università estere e dunque da serie e condivisibili esigenze di internazionalizzazione, ma l’imposizione del suo impiego esclusivo, che – anche a causa della peculiare discrasia fra bando in italiano e obbligo di domanda in inglese – non trova paralleli noti in analoghi documenti da parte di Stati europei.

Oltre la pur fondamentale questione dell’importante tutela della tradizione scientifica e accademica in italiano, il GSPL rinviene in provvedimenti come questi una delle manifestazioni della volontà (forse frutto di malinteso sul concetto di ‘scienza’) di imporre a tutte le discipline l’esclusività dell’inglese. In particolare, l’uso di più lingue della scienza vale nel caso delle discipline umanistiche, sociali e giuridiche, dove l’argomentazione non si configura come commento o illustrazione di formule, figure o tabelle — che costituiscono il cuore dell’acquisizione scientifica — ma anche e soprattutto come argomentazione linguistica, dove tradizioni di lingua e del discorso diverse costituiscono una delle ricchezze del patrimonio culturale europeo.

Il GSPL e la SLI ritengono dunque che l’imposizione di un’unica lingua per la comunicazione scientifica – perché di questo, in fondo, si tratta – costituisca un effettivo impoverimento della ricerca universitaria nel suo complesso, frutto di una preoccupante confusione fra internazionalizzazione e sudditanza culturale. Questo impoverimento va contrastato in modo deciso, partendo da una correzione del bando da parte del MIUR che riammetta la lingua nazionale nelle domande di ricerca di interesse nazionale.

Milano, 8 gennaio 2018

GSPL – SLI

Ho letto la risposta del Ministro Valeria Fedeli alla presa di posizione di Claudio Marazzini in merito alla scelta del MIUR di imporre l’inglese come unica lingua in cui è ammesso presentare candidature per i PRIN. E ho anche letto l’articolo di Gianna Fregonara sul Corriere del 5 gennaio scorso e la risposta di oggi di Giovanni Belardelli. Credo che né la signora Fedeli né la signora Fregonara si rendano pienamente conto di ciò che sta accadendo. In estrema sintesi, le due signore appoggiano l’anglificazione dei bandi di ricerca sulla base di due motivazioni. In primo luogo, sarebbe nell’interesse nazionale avere il più vasto numero possibile di partecipanti al bando in modo che i progetti da selezionare rappresentino davvero il meglio della ricerca, e questo richiede di avvalersi di valutatori stranieri perché una buona parte dei ricercatori italiani, essendo probabilmente coinvolti nel bando, non potrà essere selezionata per le procedure valutative per ovvia incompatibilità. Il secondo argomento, che sembra però un esempio di “benaltrismo”, sostiene che l’italiano si promuove nella scuola dell’obbligo e non nella ricerca. Entrambi gli argomenti sono a mio avviso infondati.

1. È certamente auspicabile che le risorse allocate ai progetti PRIN vadano ai migliori progetti, ma tenendo conto delle differenze fra aree disciplinari. Viene da chiedersi come può uno studioso straniero valutare correttamente un progetto di ricerca nel campo del diritto costituzionale, della letteratura italiana, della sociologia della comunicazione in Italia o del sistema politico italiano senza conoscere il contesto di riferimento e la lingua italiana. Proprio in nome della qualità della ricerca si dovrebbero cercare valutatori competenti, anche dal punto di vista linguistico (cioè valutatori con almeno delle buone competenze linguistiche ricettive). Due grandi agenzie per il finanziamento della ricerca come il Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (FNS) e la tedesca Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), ad esempio, non impongono certo l’uso generalizzato dell’inglese come lingua di redazione delle candidature per progetti di ricerca di base. Il FNS richiede l’uso esclusivo l’inglese solo nelle scienze esatte, in economia e psicologia. Resta un problema pratico: qualora una buona parte dei ricercatori italiani si candidassero, essi non potrebbero essere selezionati per le procedure valutative per incompatibilità. Ma la soluzione a questo problema non è imporre l’inglese, quanto invece abolire i PRIN e sostituirli con una Agenzia Nazionale per la Ricerca (come chiesto da molti) che, come accade in Svizzera e Germania, distribuisce finanziamenti alla ricerca di base a sportello tutti gli anni e durante tutto l’arco dei dodici mesi. I ricercatori potrebbero così presentare i progetti scaglionati nel corso dell’anno invece di ingolfare il sistema tutto in una volta, e resterebbero quindi sempre dei valutatori italofoni a disposizione.

2. Il Ministro Fedeli fa bene a ricordare che il MIUR appoggia le olimpiadi dell’italiano e l’apprendimento dell’italiano all’estero in cooperazione con in Ministero degli esteri, e Gianna Fregonara giustamente mette in evidenza che molti genitori vogliono che i loro figli imparino bene l’inglese a scuola per avere maggiori possibilità di lavoro (anche se quest’ansia non sembra giustificata visto che, secondo i dati ufficiali dell’ISTAT, i due terzi degli italiani che dichiarano di conoscere l’inglese non lo usano mai o quasi mai sul lavoro…). Resta il fatto che sarà sempre più difficile convincere studenti stranieri a imparare l’italiano se le nostre università ne fanno a meno e sarà altrettanto difficile persuadere i ragazzi italiani che un’ottima padronanza della lingua comune è fondamentale nella vita se tanto gli insegnamenti universitari si tengono in inglese, se al liceo, come ha fatto notare lei, si insegnerà matematica in inglese, se il MIUR concede finanziamenti extra agli atenei che promuovono l’inglese nella ricerca e se l’ANVUR penalizza sistematicamente le pubblicazioni in italiano tramite l’utilizzo di indici bibliometrici distorti a favore dell’inglese. In fondo l’italiano è stato per secoli prevalentemente una lingua dell’alta cultura ed è proprio per questo che si è imposto come lingua nazionale. Il progressivo declassamento dell’italiano ad opera del MIUR sembra ignorare i fatti storici spingendo forse la lingua nazionale verso una dannosa diglossia. E non possiamo non ricordare che il compianto Tullio de Mauro, scomparso proprio un anno fa, sottolineava l’importanza della diffusione della cultura (anche scientifica) nella popolazione come strumento di emancipazione e democrazia (idea peraltro già presente in Gramsci). Diffusione, ovviamente, molto più efficace se fatta nella lingua nazionale invece che in inglese. Mi sembra che questo corrisponda molto di più all’interesse nazionale, sinceramente, invece che l’imposizione dell’inglese nei bandi PRIN.

Il ministro ha dato un altro esempio di squallido provincialismo.

Il ministro non conosce l'italiano e ci prova con l'inglese... squallore assoluto.

Gli strafalcioni grammaticali della ministra Valeria Fedeli hanno prodotto uno strafalcione più grande! È la dimostrazione di quanto culturalmente povera (e contenta di esserlo!) sia la nostra classe politica.

Non scrivo un articolo scientifico in italiano dal… 1993, se non erro. Confesso che non ne sarei capace, e se anche lo facessi potrei tranquillamente riunire i colleghi italofoni nel salotto (che, credetemi, è molto piccolo) di casa mia.
L’uso “scientifico” dell’italiano da parte mia e di tanti colleghi si limita ai progetti del Ministero e poco più, in cui si rende in italiano, faticosamente e grossolanamente (evitando termini troppo tecnici, che spesso in italiano non esistono) ciò che già si è pensato e redatto in inglese. Pensavo che questo doppio lavoro si rendesse necessario al fine di rendere il messaggio comprensibile a colleghi o tecnici ministeriali che forse hanno poca familiarità con le pubblicazioni internazionali. Adesso scopro che si tratta invece di difendere un “patrimonio storico”, un “primato”, una “tradizione” – il tutto condito da un abbondante uso dell’aggettivo “nazionale”.
Speravo che questo doppio lavoro fosse finito e che l'italiano si potesse relegare all'ambito informale e quotidiano che gli appartiene. Forse non lo sarà quest’anno, ma lo sarà a breve.
Forse per molti colleghi di area umanistica l’italiano è davvero necessario; forse è la loro prima lingua – la mia è una di quelle “cose” senza nome che la Crusca chiama “dialetti” perché così le chiamano le leggi della Repubblica (in barba a ogni considerazione scientifica. Ma questa è un’altra storia).
Dimenticavo: sono un collega di area umanistica.

mai vista una nazione così desiderosa di autocastrarsi: politici impreparati, scienziati costretti ad espatriare, un Monti che ha creduto di risanare l'economia azzerando la possibilità di acquisto ed ora la rinuncia all'uso della lingua italiana in campo scientifico....... all'agonia della Politica, della Scienza e dell' Economia, mancava solo quella della lingua........ ora ci siamo...
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Proprio questo è il guaio: che lei non sia più in grado di parlare di scienza in italiano, e per di più se ne vanti. Purtroppo non sembra che lei colga la gravità di quanto ha segnalato Sui dialetti, mi pare che lei non sia molto esperto Un po' di lezioni di glottologia gioverebbero, forse.

Gentile Presidente,

accennando a quelli che Lei chiama "dialetti" volevo solo segnalare che l'universo mondo li considera, e non da ieri, lingue. Si parla di lingua piemontese (codice ISO 639-3 pms), veneta (vec), siciliana (scn), ecc. Si possono consultare i repertori linguistici internazionali, o gli atlanti di lingue (non dialetti) in pericolo. O semplicemente le riviste di linguistica. E' vero che è quasi tutto in inglese... (che poi tutto questo sia o non sia recepito dal legislatore è ovviamente altra storia).
Come parlante nativo di una di queste "entità" vedo la mia lingua (e il mio bilinguismo) da sempre negati; da ciò mi viene anche un certo imbarazzo nell'ascoltare peana a favore dell'italianità e della "lingua nazionale".
Ma tutto questo mi sembra poco rilevante nella discussione in oggetto, che riguarda piuttosto l'uso di una lingua internazionale per la comunicazione scientifica.
I nostri studenti già studiano su materiale per lo più in inglese, e spesso richiedono a gran voce di poter seguire in quella lingua corsi di laurea o singoli insegnamenti; leggono (e se sono bravi un giorno scrivono) su riviste internazionali. E' ovvio che al termine della giornata pensino, letteralmente, in inglese, e non cerchino di tradurre "floating tone" nella lingua di Dante.
Mi rendo conto che questo non vale per alcuni settori umanistici, come l'italianistica – settori che hanno tutto il diritto, e la necessità, di continuare a esprimersi in italiano.
Non vale però, mi creda, né per tutte le discipline umanistiche né, ovviamente, per le "scienze dure".
Forse lasciare la possibilità di redigere e sottoporre progetti in italiano per alcuni, limitati, settori disciplinari potrebbe essere la soluzione. Non certo quella di imporre l'italiano a tutto il mondo scientifico.
Con immutata stima e viva cordialità.

Appunto. Infatti la polemica è nata nel momento in cui il Ministero ha voluto cambiare strada rispetto al Prin 2012 e al Prin 2015. Nessuno di noi protesta perché c'è l'inglese. Nessuno ha protestato per le due soluzioni (fra l'altro diverse tra loro) dei due precedenti Prin. Protestiamo oggi, perché si marginaliizza l'italiano, cioè la lingua ufficiale d'Italia. Siamo noi gli aggrediti, non certo gli aggressori. Cerchiamo di non confondere le parti. Quanto agli studenti italiani che pensano in inglese, mi permetta una risata. Se poi il discorso dovesse proseguire su di un livello serio, allora dovremmo tenere presente che le culture scambiano e sviluppano le proprie energie migliori proprio nell'esercizio della tradurre, perché nessun confronto è migliore della traduzione. Altrimenti è colonizzazione.

In un paese che muore (per valori, cultura, tradizioni...) nell'indifferenza politica generale, perché -dello stesso- dovrebbe continuare a vivere la lingua?

P.S. Nota provocatoria, ovviamente.

Caro Presidente,
grazie per il tuo intervento, più che convincente (e coinvolgente). Il comportamento dissennato del MIUR ci espone al ludibrio internazionale; la nostra speranza è riposta, ormai, nelle stanze 'dissenzienti' del Ministero, là dove ci si adopera per le Olimpiadi dell'italiano, si preparano circolari ed eventi per portare l'attenzione sulla priorità e la trasversalita' dell'educazione linguistica, ecc.
Ma bisogna tenere ben caldo il tema, con tutti i mezzi possibili, altrimenti il provincialismo dell'anglomamia-a-tutti-i-costi ci fa sprofondare, nella considerazione internazionale. Ovviamente, il GISCEL, di cui sono segretario, è disponibile ad ogni iniziativa in tal senso

Caro Alberto, grazie anche a te. Spero che la vostra voce, la voce di tanti colleghi e studiosi, possa farsi sentire, anche perché l'intervento del 6 gennaio 2018 della Ministra Fedeli rivendica la scelta in maniera esplicit. Questo ci permette di escludere che si sia trattato di una distrazione, cioè di un errore facilmente rimediabile. A quanto pare, è stata una scelta voluta e meditata, ahimè. Sono davvero costernato.

Egregio Presidente, cari voi tutti,
Ringrazio di cuore per questo doveroso intervento. La lingua inglese è certamente veicolo internazionale di lavoro, e non solo nell'ambito della ricerca, pertanto ne è necessaria ovunque la conoscenza. Tuttavia è cosa ben diversa quella di avallarne la pratica obbligatoria, rendendo opzionale l'italiano, in un atto pubblico nazionale rivolto a enti, istituzioni, ricercatori della Repubblica per finanziarne le eccellenze. Diventa poi paradossale (se non anche dannoso per l'erario), se solo si pensa che una Amministrazione dello Stato investe annualmente milioni di euro per la promozione e la diffusione della lingua di Dante all'estero attraverso gli Istituti Italiani di Cultura, le scuole italiane, i lettorati nelle Università, le borse di studio per studenti stranieri ecc. e, in Patria, un'altra Amministrazione, del medesimo Stato, incentiva la promozione e la diffusione dell'inglese negli atti pubblici!
Ringraziando, saluto tutti cordialmente

La ringrazio per il suo intervento.

Un altro frutto dell'assoluta prevalenza della logica delle scienze "dure" (assolutamente legittima per queste) nel fissare le regole dell'intera accademia. L'inglese di quelle discipline è una lingua relativamente standardizzata e formalizzata nel lessico e nelle strutture argomentative, utilizzata per brevi testi che sono sostanzialmente di commento a dati e ad apparati autoesplicativi di tabelle e formule (il loro proprio linguaggio); utile, anzi indispensabile, per i ricercatori che si confrontano con una comunità scientifica davvero senza confini e fortemente concentrata attorno a temi e percorsi formalmente considerati up-to-date e dove la prevalenza della ricerca anglosassone è antica e indubbia.
Il paradosso sta nell'imporre tale logica alle scienze umanistiche, in cui l'argomentazione e la retorica sono elemento fondamentale del testo e la cui pratica richiede una familiarità con la lingua in cui si scrive o si parla che metta in grado di esprimere con le sole parole sottili sfumature e concetti molto complessi e con un grado di "oggettività" molto minore. Questa omologazione alle logiche delle scienze "dure" - ripeto, assolutamente legittime nell'ambito di queste - è uno dei maggiori problemi anche nella valutazione della ricerca: i commissari non italiani nei concorsi, la sproporzione nel peso degli articoli rispettto alle monografie, la sottovalutazione dei contributi in volumi miscellanei sono altrettanti "tradimenti" di tradizioni disciplinari - quelle umanistiche - che non di rado sono eccellenze italiane e comunque sono il frutto di sedimentazioni teoriche, metodologiche e di pratiche della ricerca che costituiscono un patrimonio originale della cultura italiana.
Non è d'altronde un mistero che alle tendenze "professionalizzanti" e "aziendaliste" oggi prevalenti le scienze umane non stiano affatto simpatiche, in quanto epistemologicamente - e direi eticamente - del tutto opposte.

Grazie. Spero che gli storici come lei ci diano una mano nella difesa dell'italiano.

La lingua inglese è necessaria perché è il passaporto linguistico "internazionale" dei ricercatori. Purtuttavia, in Italia e non solo, il mondo della #Ricerca universitaria sembra aver intrapreso una deriva di quasi totale disconnessione dal contesto che dovrebbe contribuire a sviluppare; tale deriva è una scelta cosciente, ragionata e purtroppo finalizzata quasi esclusivamente all'autoreferenzialità.

Se ho cercato bene nella Rete, lei è uno specialista di ingegneria industriale. Tecnici e scienziati possono davvero darci una mano. Sarebbe una collaborazione preziosa. La ringrazio.

Il pensiero di negare l'importanza dell'inglese come lingua di comunicazione non mi sfiora nemmeno, ma detesto questa deriva antinazionale che porta a posporre addirittura la propria lingua alle esigenze di una lingus che è stata giustamente definit una lingua killer,una lingua che uccide le lingue con cui viene a contatto. Qui in Germania non accade la stessa cosa,per fortuna. Non voglio abbandonarmi a frasi violente, che contrasterebbero già solo con la mia natura di "Toro", ma detesto l'inglese, detesto chi lo parla e detesto tutta l'ingoranza che lo accompagna, portata avanti all'insegna del "tanto,chi se ne frega delle altre lingue, tanto c'è l'inglese".

Amore per l'Italiano, le cui ore di studio sono state diminuite nei diversi cicli dell'istruzione, il miur non ne ha mai avuto. Non ha neanche mostrato amore per la cultura; in compenso nutre un amour fou per le competenze, tra le quali l'uso ingiustificato e non importa se scorretto, della lingua inglese, Non siamo uno Stato; siamo uno stato colonia non si sa bene di chi e ci sta bene così. Cara Crusca, fra poco anche tu sarai utilizzata solo nei negozi Naturasì.

L'idea di negare l'importanza dell'inglese come liongua di comunicazione internazionale non mi sfiora nemmeno, ma nonostante questo voglio esprimere la mia antipatia,la mia ostilità verso quella che è stata giustamente definita una lingua-killer,una lingua che uccide le altre lingue con cui viene a contatto.

Ritengo la decisione del Ministero assurda e scandalosa. Come ho a suo tempo dichiarato a proposito della scelta del Politecnico di Milano di tenere corsi obbligatoriamente in lingua inglese, se è comprensibile, soprattutto per le discipline scientifiche, adottare una sorta di "bilinguismo" italiano-inglese per favorire l'intercomprensione tra comunità di studiosi, ritengo inaccettabile l'obbligo di adottare l'inglese come lingua unica in ambito universitario. Le ragioni sono molte e sono state già illustrate nell'articolo del Sole 24 Ore e nell'intervento del Presidente Marazzini. In particolare, desidero sottolineare l'assurdità di imporre l'uso dell'inglese per i progetti di ricerca in ambito umanistico e italianistico, dove la traduzione comporta necessariamente scelte soggettive e talvolta discutibili. Non dovrebbero forse essere coloro che giudicano a dimostrare la loro competenza nella lingua italiana?

Importante l'articolo di Annalisa Andreoni e saluto con piacere la sentenza 42/2017 della Corte Costituzionale sull'equilibrio "tra inglese e italiano nell'università". Mi auguro che che si possa discutere su questo tema anche nel nuovo parlamento che verrà eletto il 4 marzo. Penso che si debba legiferare perché la nostra lingua non può essere lasciata senza che abbia non dico difese ma garanzie di evoluzioni naturali senza svolte come le tendenze in atto ci stanno mostrando.

Naturalmente non sarà facile riequilibrare processi che sono stati avviati obiettivamente da tempo e non abbiamo pensato di bloccarli. Ora penso che si debba discutere sul tema anche perché con i recenti flussi dei stranieri che entrano in Italia che in questi anni si sono velocizzati è da pensare che per i processi d'inserimento, in modo vario s'intende, avranno un peso per l'evoluzione della nostra lingua. Sul tema dobbiamo coinvolgerci e studiare o meglio ristudiare la nostra lingua, solo così potremo noi stessi essere garanti della nostra lingua che è un bene comune e si voglia o no una ricchezza per tutti.

E' più che giusto e doveroso sollevare il tema - importantissimo - ogni qualvolta se ne presenti l'occasione. Anche il mondo del turismo, in cui opero da oltre tre decenni in qualità di giornalista, troppo spesso indulge nella tentazione di sopravvalutare l'uso delle lingue altrui, in particolare quella inglese. Non sempre è necessario e proficuo.
Talvolta l'italiano può essere - oltre che veicolo della produzione e della creatività del nostro Paese, come correttamente rileva Annalisa Andreoni - strumento funzionale alla valorizzazione della 'Destinazione Italia'. Lo ribadisco agli operatori del settore ogni volta che ne ho l'opportunità e l'ho scritto ormai tre anni orsono in questo brevissimo articolo, che avrei piacere di condividere con voi.

TRADITALY
Chissà perché continuiamo a incaponirci nello sfornare portali (o web portals), siti in rete (o websites) e nomi (o naming) di prodotti turistici e culturali per i mercati esteri – e non – in lingua inglese. Eppure sono molte le voci che si stanno levando per segnalarci come il nostro idioma sia oggi sempre più amato e agognato dagli stranieri.

E mentre il mondo della critica cinematografica radunato in questi giorni a Cannes si chiede perché due dei tre italiani in concorso abbiano optato per titolazioni anglofone (Sorrentino con Youth e Garrone con Tale of Tales), al Salone del Libro che quest’anno si annuncia ai visitatori con lo strillo (o claim) “Italia, Salone delle Meraviglie”, la prima mattinata si è aperta discorrendo proprio di “Lingua Madre: l’italiano e i suoi sconfinamenti”. Qui, titolatissimi insegnanti della dantesca parlata disseminati nei più prestigiosi atenei d’oltralpe e d’oltreoceano, hanno ricordato come in soli dieci anni ci sia stato un poderoso balzo degli iscritti ai loro corsi. “In testa a tutti – ha ricordato Adriana Hösle Borra – ci sono i tedeschi, che stanno addirittura lavorando a un dizionario filologico della nostra lingua, di cui noi italiani non disponiamo ancora, poi gli australiani e quindi gli statunitensi”.

Perché, allora, almeno quando trattiamo con i suddetti mercati non approfittare di questa tendenza (o trend) per valorizzare il fascino (o appeal) esercitato dal nostro idioma, e trasformarlo in una delle tante eccellenze del Prodotto Italiano (o Made in Italy)?
Almeno, proviamo a farci una riflessione; se è il caso, anche seria.

Ammetto che, nello scrivere queste righe, la tentazione di indulgere nelle abituali scorciatoie lessicali mutuate dalla terra di Albione è stata anche per me fortissima. Tuttavia, con una minima – ma davvero minima - dose di impegno, ho piacevolmente e orgogliosamente scoperto di potercela fare utilizzando la lingua che sempre più stranieri vorrebbero saper maneggiare bene quanto in realtà solo noi, che ne siamo spesso indegni ambasciatori, potremmo fare e non facciamo. Trascurandola troppo spesso, snobbandola troppo a lungo.
Nell’illusione di dimostrarci più global. Auspicabilmente più fashion. Certamente più trendy.

Illustre Presidente e caro collega Marazzini,
ringrazio per qs intervento autorevole, preciso, documentato, equilibrato.
Era proprio necessario e speriamo che dia buoni e decisivi esiti. In ogni caso sono certo che occorrerà restare vigili in argomento, se non vogliamo che la nostra bella (e invidiata) lingua divenga ancillare nella nostra Patria.
Disponibile a sottoscrivere eventuali documenti in merito, cordialmente saluto.

Ringrazio per l'appoggio. Intanto la situazione si è fatta anche più complicata, dopo la presa di posizione della Minsitra Fedeli. Il suo intervento esclude purtroppo che si sia trattato di un errore involontario. Attendiamo gli sviluppi della discussione.

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