La lingua della messa
Marzo 2015
Cinquant’anni fa, esattamente il 7 marzo, papa Paolo VI celebrava a Roma, nella chiesa di Ognissanti, la prima messa in italiano. Dopo essere stata la prima istituzione pubblica a ufficializzare la pratica delle lingue locali nella predicazione (Concilio di Tours dell’813), la Chiesa dì Roma è stata l’ultima ad adottarle nei suoi riti, dopo essere stata a lungo restia ad usarle anche per la conoscenza delle Sacre Scritture. Come si sa, quello delle lingue fu uno dei punti di contrasto tra protestanti (che immediatamente adottarono le lingue materne) e cattolici (che rimasero fedeli al latino) e uno degli argomenti di più appassionata discussione al Concilio di Trento.
La questione era eminentemente dottrinale, teologica e pastorale, tanto nel XVI secolo, quando la Chiesa romana si schierò con i vescovi spagnoli contro quelli tedeschi e disse di no alla messa nelle lingue locali, quanto nel 1963, quando, al Concilio Vaticano II, ne permise l’adozione. Da allora anche l’italiano è diventato lingua del rito centrale del cristianesimo, non senza rammarico, nostalgia e polemiche dei vari tradizionalisti, che ora, grazie a un decreto di Benedetto XVI, possono, se le circostanze lo consentono, celebrare di nuovo la messa anche in latino. Ma si tratta di casi limitati, anche se potenzialmente destinati a crescere, specie se dovesse diffondersi un’interpretazione distintiva, grintosamente difensiva del cattolicesimo, magari sotto l’incalzare di altri estremismi religiosi.
Ma a noi qui interessa la lingua. E la domanda allora è: che tipo di italiano è quello che tutte le domeniche i cattolici usano in chiesa durante la messa? Bisogna dire subito che non coincide precisamente con la lingua comune, e non c’è da stupirsene, vista (è il caso di dirlo) la funzione. Intanto, ci sono costrutti preposizionali o inusuali o letterari tipo “per Cristo” col valore di mezzo, tramite, che la lingua ordinaria non prevede se non con nomi comuni (“per posta”) e che con nomi propri ha valore diverso (“per Marco” vale “a giudizio di Marco”). Allo stesso modo “in Gesù Cristo… canteremo la tua gloria” è ai limiti della grammatica (si canta qualcosa non in ma con). Il “sacrificio.. preparato nel tuo santo nome” potrebbe significare “per conto tuo” e invece ritengo (ma chiedo soccorso ai teologi) voglia dire altra cosa, tant’è vero che Antonio Rosmini aveva suggerito di tradurre “preparato al tuo santo nome”. La reggenza “nell’unità dello Spirito santo” è, per la norma, incongrua, perché l’italiano accetta solo “in unità con”, tanto che il card. Tamburini aveva saggiamente suggerito, già nel ‘700, “in unità di essenza collo Spirito santo”, chiarendo il senso e rispettando la grammatica. Nel Credo si dice “credo la Chiesa una, santa, cattolica” e già Manzoni aveva qualche dubbio al proposito, che però Rosmini gli chiarì ricordandogli che qui credo vale professo e attesto, con un valore perciò diverso dal precedente (nella stessa preghiera) “credo in un solo Dio”. Anche “comunicando al santo mistero del corpo e sangue…” prevede una reggenza anomala del verbo comunicare, che in italiano corrente vuole con. Certe espressioni poi sono molto particolari. Ad esempio, la risposta all’augurio del sacerdote, “Il Signore sia con voi”, “e con il tuo spirito” non è affatto perspicua e sarebbe più chiara se fosse “”e (anche) con te”, come suggeriva Franco Fochi, se non addirittura “abiti egli ancora nel tuo spirito”, come proponeva Ludovico A. Muratori. Certe invocazioni sono circondate da una serie di apposizioni, ma non si distingue più tra il vocativo (Gesù Cristo) e i suoi titoli in “tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo”, tanto che ancora Muratori aveva pensato di metterci davanti un oh: “Oh Signore, Figlio unigenito, Gesù cristo. Oh Signore Iddio, Agnello di dio, Figlio del Padre”, per distinguere i vocativi dai loro attributi teologici.
E che dire poi del valore che a messa assumono parole come sacrificio o vittima, usate con una valenza positiva che certo non hanno nella lingua comune, o passione usato non come attrazione ma come sofferenza: si pensi come, nell’italiano corrente, la frase “Egli, offrendosi liberamente alla sua passione” potrebbe avere un senso completamente diverso da quello che assume nella messa. Per non dire dell’uso della parola “memoriale”, che evoca diari, retroscena, e che invece è stato a volte introdotto, come opzione dotta, per tradurre un ben più semplice “memores” latino (cioè: ricordando, memori). E così “ministri”, scelta colta per servi e/o sacerdoti. Ci sono in effetti nobilitazioni varie del linguaggio, come in “rendere grazie” per “ringraziare” o sottili ritocchi per non abbassarlo, come quando “dopo la cena, allo stesso modo” (che sostituisce un precedente “dopo aver cenato”) isola con l’articolo quella cena speciale, evitando la banalizzazione del “dopo cena”. Ma la traduzione in italiano del latino della vecchia messa è stata ovviamente anche un’occasione per aggiustamenti teologici, come quando il Deus Sabaoth, cioè “degli eserciti”, è diventato “Dio dell’universo” o il sangue, che in latino era versato “pro multis”, in italiano è stato offerto “per tutti”. Ma questa ovviamente non è più questione di lingua.
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Intervento conclusivo di Vittorio Coletti
Vorrei ringraziare i molti e spesso molto autorevoli intervenuti nella discussione che ho proposto sull'italiano della Messa (la scrivo maiuscolo come qualcuno ha fatto osservare che si dovrebbe, ma non è certo obbligatorio a norma di regole ortografiche). Quasi tutti mi fanno osservare che in quella situazione comunicativa l'italiano è sotto pressione di ben altre ragioni che quelle della sua grammatica corrente: insomma, l'italiano della Messa è una lingua, se non speciale, settoriale, per di più con incidenze, diversamente dal solito, non meno sulla grammatica che sul lessico. Cioè, l'italiano della Messa ammette costrutti e valori semantici, più ancora che parole (come accade nelle altre lingue speciali), decisamente non comuni, e a volte ai limiti della norma. Non ho voluto dire che fa male a fare così o che non lo dovrebbe fare. Mi sono limitato a registrare da linguista lo stato delle cose, che mi pare nessuno abbia seriamente messo in dubbio, pur variamente e dottamente giustificandolo o spiegandolo, ora dal punto di vista delle varietà del linguaggio ora da quello teologico-liturgico-esegetico, come esemplarmente hanno fatto gli interventi più articolati di Fabio Marri, padre Eugenio Costa, Antonio Bonomo e, nella ripresa del tema su Avvenire, mons. Lameri. Proprio con una piccola replica a mons. Lameri chiudo questa discussione. A un certo punto il Monsignore mi fa osservare che “in unità di”, da me eccepito, è un costrutto ammesso dall'italiano e che io quindi faccio male a sospettare della sua grammaticalità. In realtà, il costrutto, è italiano, ma se segue di (“nell'unità di intenti, metodi, interessi, spirito ecc.”, “nell'unità della squadra”, “nell'unità di Carlo e Giulia, di nonno e nonna”), significa unione, comunanza e la preposizione (di) introduce un complemento di materia o di specificazione. Se invece segue con introduce un complemento di compagnia o unione. Ora, nella Messa si dice “nell'unità dello Spirito Santo” e mi pare che, secondo la teologia cattolica, lo Spirito santo dovrebbe essere una Persona che si unisce alle altre due appunto in un particolare complemento di compagnia, non che specifica su cosa si basa l'unione: quindi qui, a rigore, potrebbe essere discutibile, oltre che la grammatica, anche la teologia. Ma non sono sicuro.
Grazie a tutti
Io ho sempre trovato errata la formula dell' Eterno riposo: "risplenda AD ESSI la luce..". Sbaglio?
Vi avevo già segnalato, a proposito della Messa cristiana, la frase che molti preti e anche cardinali ( così ho sentito dire persino dal card. Ruini) dicono, in modo errato secondo me: prese il pane, GLI rese grazie (e così col vino). Ma a chi rese grazie Gesù al Padre o al pane e al vino ? E ogni volta che sento dire così mi viene da ridere e mi deconcentro dal fatto altamente spirituale...
Solo una precisazione..anche se è vero che col Vaticano II di fatto le varie Chiese nazionali utilizzino pressoché esclusivamente le lingue locali, il latino non ha mai cessato di essere la lingua ufficiale della Chiesa Cattolica, ad espressione della sua unità ed universalità. La concessione fornita da Papa Benedetto XVI riguardava quindi non la possibilità dell'uso della lingua latina nelle celebrazioni liturgiche ma semplicemente la possibilità di celebrare anche S. Messe secondo il Vetus Ordus, la c.d. Messa di San Pio V, in vigore fino al Vaticano II. La S. Messa in latino secondo il Novus Ordus si poteva, ovviamente, celebrare anche prima dell'autorizzazione di Papa Benedetto.
Mi permetto di inviare a mia volta alcune considerazioni sul tema, un po' a scatto libero, sperando di non dire ovvietà. Coletti ha messo il dito su di una vera e propria aporia. Da un lato infatti la liturgia (qualunque liturgia, di qualunque religione) deve riprodurre una dimensione spazio-temporale fissa nell'eternità e, di conseguenza, il suo linguaggio tende per sua natura a cristallizzarsi; dall'altro lato, in alcune confessioni cristiane (protestante prima, cattolica poi, mai - che io sappia - nel caso di quella ortodossa) si è posto a un certo punto il problema della "attualizzazione" del linguaggio liturgico, per renderlo sempre comprensibile al pubblico dei fedeli. Il problema è complesso in quanto non è meramente linguistico, ma nel contempo - e direi, soprattutto - filosofico-teologico. Per limitarsi alle versioni bibliche - dalle quali si diparte anche la questione della lingua liturgica - il caso più interessante, per ciò che attiene proprio alla 'questione della lingua', non è tanto quello del cattolicesimo, quanto quello delle chiese riformate. In Germania, per esempio, dove per la prima volta si passò al volgare nella liturgia, c'è una parte consistente di fedeli che non vuole dismettere la Lutherbibel a favore della Einheitsübersetzung (accettata e adottata da cattolici e protestanti, che sono più o meno pari numericamente; mentre i cattolici tedeschi – e austriaci – sembrano non porre ostacoli a questa strada di 'rinnovamento linguistico'). Lo stesso avviene, in qualche misura, per la King James Version nei paesi anglofoni. Quindi, l'anelito innovatore, per quanto si riferisce al linguaggio della Bibbia e della liturgia, non è poi così universalmente condiviso. Nel caso del cristianesimo ortodosso, d'altra parte, come dicevo, l'istanza della 'modernizzazione' non esiste proprio, e la liturgia è tuttora quella di San Giovanni Crisostomo (IV sec.).
Quanto ai dettagli, il famoso 'in' non è altro che un semitismo (= una particella ebraica avente valore sia locativo, sia strumentale), passato indenne attraverso il greco della LXX e del Nuovo Testamento, il latino della Vetus e della Vulgata e approdato anche alle traduzioni in lingue moderne. Aggiungo una piccola nota: le c.d. 'versioni in lingua corrente', prodotte negli ultimi quarant'anni in varî ambiti linguistici, non sembrano avere sortito grande successo…
Un altro caso clamoroso – secondo Pighi, Zolli e seguaci – di traduzione come tradimento dei valori cattolici della Messa starebbe nella resa di “accepit hunc panem / hunc calicem” con “prese il pane / il calice”, laddove “questo pane/vino” (che il sacerdote cattolico tiene ed eleva al cielo) è lo stesso che tenne Cristo e che sta diventando il corpo/il sangue di Cristo; mentre “il” pane è solo “quel” pane (illum panem, come sanno tutti i linguisti), quello che Cristo aveva allora, lontano nel tempo e nello spazio da quanto il fedele vede ora. Il che significherebbe che la Messa non è più il rinnovamento, la ripetizione, dell’Ultima Cena, ma solo una rievocazione memoriale (come vogliono appunto i luterani).
Chiedo venia per questa postilla tardiva, ma il brano di Coletti è stata la madeleine che mi sta riportando alla mente dispute appassionate con chi non c’è più da oltre un quarto di secolo.
L’egregia disamina di Vittorio Coletti (che giustamente si richiama anche alle proposte del Muratori), e le precisazioni ‘di parte’, ma fondatissime, del padre Eugenio Costa, mi fanno venire in mente una sezione meno nota dell’attività del compianto Paolo Zolli (a cui, forse, l’interessato teneva di più che alla produzione scientifica): quella appunto del dibattito sulla cattolicità forse edulcorata, se non proprio tradita per presunti fini di conciliazione coi protestanti, dal "Novus ordo missae" e la conseguente traduzione in italiano. Zolli si rifaceva anche alle incontrovertibili annotazioni del grande latinista Giovanni Battista Pighi (Osservazioni sul testo italiano della Messa, Università di Bologna 1967), cui si aggiunsero nel 1969 gli appunti, indirizzati personalmente al Papa, dei cardinali, teologi e classicisti Ottaviani e Bacci.
Citando alla rinfusa e a memoria solo poche delle riserve formulate da Zolli (ricordo anche un amichevole dibattito col grande padre gesuita Busa, pioniere dell’informatica umanistica, a margine di un congresso catanese di linguisti e filologi), indico la persistente, erronea traduzione (assurda teologicamente e smentita anche dalla parafrasi dantesca del Pater noster) “liberaci dal male”, invece che “dal Maligno” (il demonio); oppure il “togli i peccati del mondo”, laddove “tollis” varrebbe piuttosto “prendi su di te” o anche “elevi” (al Cielo); o lo spostamento, fuori contesto e banalizzante, di “Mistero della fede”, che venne tolto dal nucleo della consacrazione divenendo una specie di esclamazione, rassegnata e poco vincolante.
Quanto ad altri esempi fatti da Coletti, il “per molti” (latino pro multis) trasformato in “per tutti”, sul pretesto della polivalenza dell’aggettivo greco, veniva invece ricondotto (relata refero) alla volontà postconciliare di garantire la salvezza a tutti, non solo a “voi” cattolici ma agli aderenti a qualsiasi credo, atei inclusi. E la scomparsa degli “eserciti” (Sabaoth) era attribuita a una volontà pacifista della Chiesa, sempre disposta a porgere l’altra guancia senza prendere mai in considerazione l’ipotesi di “guerre sante” (purtroppo, i fatti degli ultimi mesi mostrano che altrove si fa grande affidamento su questa cristianità inerme e indifesa).
Personalmente, invece, non trovo niente di strano per quell’ “in Cristo”, calco fedele dal latino a significare che il cristiano, non che in semplice compagnia, è tutt’uno, in piena “comunione” col Cristo. Infine, non mi persuade la spiegazione data da Rosmini a Manzoni su “credo la Chiesa…”, cioè la “professo” ecc.: forse i traduttori moderni avranno pensato a una specie di accusativo con l’infinito (“credo la chiesa essere…”) o di participio congiunto, “credo che la chiesa sia [‘è’, per i credenti senza dubbi] una, santa” ecc. Il tutto, anche per mantenere, grazie a precisi ricalchi dal latino, quella certa continuità col depositum fidei sostanziata pure di quella doverosa distanza dalla sintassi e dalla lingua comune, che già l’Ascoli del Proemio aveva raccomandato per il linguaggio delle pubbliche istituzioni.
La decisione ecclesiastica (Concilio Vaticano II e disposizioni successive) relativa all’introduzione delle lingue parlate nelle celebrazioni liturgiche è stato un evento, culturale e religioso, di grande peso. Nella storia bimillenaria della Chiesa cattolica, i due passaggi importanti, sulla questione delle lingue cultuali, erano stati: nei primissimi secoli, in Europa occidentale, quello dal greco al latino e, nel sec. IX, quello dal latino alle lingue slave nei paesi omonimi. L’avvento della riforma protestante ha indotto le autorità cattoliche, nel sec. XVI, a non cedere sul latino. Tra ‘700 (reazioni dei giansenisti italiani; traduzione ufficiale della Bibbia in italiano, dell’abate Martini) e ‘800 (proposte di Rosmini) alcuni aspetti del tema in qualche misura si ripresentano, ma è soprattutto nella prima metà del ‘900 che il problema viene segnalato in modo sempre più insistente da parte sia degli studiosi che dei pastori.
Mentre la predicazione, la catechesi e le pratiche devozionali erano sempre avvenute nella lingua parlata, ora si trattava di leggere nella liturgia stessa i testi biblici, e di pregare (e cantare) i testi di origine ecclesiastica, impiegando la lingua in uso nei diversi paesi e culture. Nelle chiese presenti nei diversi continenti si è messo in moto, nel corso degli ultimi cinquant’anni, un enorme cantiere di traduzioni dagli originali ebraico-greci (libri biblici) e latini (preghiere) nelle lingue di comunicazione. L’operazione ha messo a dura prova la preparazione scientifica e le capacità creative di cui ogni chiesa locale dispone, con inevitabili luci e ombre. Attualmente la liturgia ‘latina’ viene celebrata in più di 400 lingue.
In Italia, gradatamente fra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, i libri liturgici (in particolare il Messale, i Lezionari biblici, gli altri riti sacramentali e la Liturgia delle Ore) sono stati approntati nella nostra lingua sotto la responsabilità della Conferenza Episcopale italiana (CEI), che ha fatto ricorso a centinaia di esperti e collaboratori, con frequenti controlli e ripetute revisioni. La situazione, in queste proporzioni, è storicamente inedita e le soluzioni adottate possono essere considerate durature, sì, ma non intoccabili: il cantiere rimarrà inevitabilmente aperto, anche se l’esperienza insegna che non è bene ritoccare troppo spesso espressioni e diciture che diventano patrimonio spirituale dei fedeli. In questo momento sono in atto la terza revisione ufficiale del Messale e la seconda della Liturgia delle Ore.
Le sfide davanti a cui si trovano i traduttori sono molteplici e non sempre facili da far convergere. Nel valutare il lavoro compiuto, è indispensabile tener presenti i diversi fattori con cui essi hanno dovuto fare i conti: il rigoroso rapporto con i testi originali (in ebraico, in greco e in latino); i termini-chiave acquisiti nel linguaggio cristiano; le esigenze tipiche della pratica liturgica; la tradizione catechetica e teologica del mondo italiano; il traguardo di una lingua italiana comunicativa, media ma non banale, di livello accettabile ma non sciatta, se possibile non priva di una certa quale bellezza; una fluidità di eloquio che consenta una buona leggibilità e cantabilità. È quindi arduo raggiungere un amalgama equilibrato, sempre impeccabile, senza svarioni o cadute di stile.
Le annotazioni del prof. Coletti sono tutte puntuali e centrate. Su diversi punti vi sono state, e permangono, tensioni e incertezze. La discussione rimane aperta e non può che portare a ripensare le soluzioni adottate, per un continuo miglioramento dei testi.
P. Eugenio Costa S. J.
Perfettamente d'accordo con quanto espresso con grande competenza dall'esimio prof. Colettila, ma io vorrei far rilevare che anche la Liturgia della Parola ha un linguaggio arcaico e molto spesso incomprensibile che purtroppo non è ascoltato dai fedeli con l'interesse che meriterebbe. Il Vaticano non potrebbe aggiornarne il linguaggio senza stravolgerne il senso?
Quello che dicevo io!!!
Insomma c'è tanfo di naftalina o puzzo di vecchio in decomposizione.
Sta lingua è anacronistica e nessuno te la spiega. Si ripete la pappardella a memoria è basta.
Le modifiche fatte dico io dai neocatecumenali di Kiko all'aspetto liturgico rendono la messa più vicina agli spettatori!
Una critica a questo tema: state parlando della messa cattolica. Il titolo è ambiguo!
Il termine "Messa" è prerogativa della liturgia cattolica. Nè i protestanti nè gli ortodossi la chiamano "messa", ma "Santa Cena", "Cena", "Spezzare il Pane", "Ascolto della Parola". Nel caso degli ortodossi il termine comune è "Divina Liturgia"
Concordo con Alberto, ma chiedo al professor Coletti come mai questa scelta della M di Messa minuscola?
Quali sono le motivazioni?
A prescindere dalle questioni grammaticali, peraltro di grande fascino, ritengo sia interessante l'aspetto lessicale e semantico che si cela dietro le formule del rito. "Nella notte in cui fu tradito", ad esempio: da piccolo mi immaginavo il complotto, vedevo i traditori aggirarsi nel Getzemani. Poi leggendo il testo in latino, con l'ausilio di mia moglie, ho capito anni dopo che quel "traditus" altro non significava che "consegnato". Lost in translation...
Nessun errore o perdita ("tradire" italiano discende da "tradere" latino, cioè 'consegnare'), ma cambiamento intenzionale - e che non capisco - dall'originario "Qui pridie quam pateretur" (traditus proprio non c'era), cioè "alla vigilia della Passione".
A dire il vero Deus Sabaoth si può ricondurre a "SIgnore dell'Universo". In ebraico Tsebaaoth (plurale di esercito) viene ricondotto metaforicamente anche alle schiere celesti e quindi all'universo. Non è quindi un mero adattamento secondo lo "spirito del tempo", ma una spiegazione teologica.
Ma non puzza di naftalina sta lingua, visto che la traduzione è vecchia di 50 anni?
Non crede lei che forse la chiesa dovrebbe ringiovanirsi pure lì?
La vera domanda è: ma chi capisce quello che il prete dice?
Nessuno.