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Nicoletta Maraschio professoressa emerita dell'Università di Firenze
Monica Berté e Maurizio Fiorilla
Laura Boldrini all'Accademia della Crusca
Max Pfister e Massimo Fanfani

La parità delle lingue nell'Unione europea


Nota informativa presentata dal prof. Francesco Sabatini sul problema delle "lingue di lavoro" * (Ministero degli Affari Esteri, 8 aprile 2003)
 

1. Le disposizioni vigenti. Nel Trattato di Roma (25 marzo 1957), atto costitutivo dell'allora "Comunità" diventata poi (7 febbraio 1992, con il Trattato di Maastricht) "Unione Europea", è stabilito che tutte le lingue nazionali dei Paesi aderenti sono considerate "lingue ufficiali" dell'Unione stessa e hanno quindi parità di diritti, nell'uso a tutti i livelli, e di effetti. Tra gli aspetti di questa parità va segnalato, tra l'altro, il diritto di ciascun cittadino dei Paesi membri di rivolgersi nella propria lingua a qualsiasi istituzione comunitaria e di riceverne risposta nella propria lingua. Inizialmente erano in gioco le quattro lingue dei cinque Paesi fondatori (francese, italiano, nederlandese, tedesco): successivamente si sono aggiunte via via le lingue degli altri Paesi aderenti (danese, finlandese, greco, inglese, irlandese, portoghese, spagnolo, svedese). A partire dal 1 gennaio 2004, con l'ingresso di dieci nuovi Paesi, sarà riconosciuta questa condizione alle lingue di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria.

 

2. La prassi vigente nei lavori degli organismi dell'Unione. Una scelta di fatto e un'iniziativa fortemente pregiudizievole (in data 10.12.2002) dell' "Ufficio Europeo per la Selezione del Personale". Ai vari organismi comunitari sono addetti traduttori e interpreti che provvedono alla traduzione da e in tutte le lingue ammesse. Tali attività sono affidate, rispettivamente, al Servizio di Traduzione, che ha sede a Bruxelles e a Lussemburgo e lavora esclusivamente per la Commissione Europea; e al Servizio Comune Interpretazione-Conferenze, che opera a Bruxelles e lavora sia per la Commissione sia per altri organismi. Con la traduzione viene assicurata la circolazione finale degli atti in tutte le lingue riconosciute. L'attività degli interpreti copre i bisogni di circa 50 gruppi riuniti giornalmente1. È ben noto, però, che nell'attività di numerosi organismi "ristretti" e negli uffici le lingue di lavoro sono di fatto, per ovvie ragioni di economia, solo tre: nella maggioranza dei casi è l'inglese, al quale segue il francese e in minor misura il tedesco. Le prime due lingue si erano affermate in questa funzione già nella fase iniziale, la terza si è attestata "di fatto" (per la persistente pratica dei soggetti che la parlano) in epoca più recente. Su questa strada si va mettendo da ultimo anche lo spagnolo. L'ultimo atto di "scelta di fatto" delle lingue comunitarie si è avuto il 10 dicembre 2002 con una decisione dell' "Ufficio Europeo per la Selezione del Personale" (EPSO), che ha diramato il bando per l'assunzione, nel corso del 2003, di personale dai dieci paesi candidati prescrivendo che le prove siano svolte in una delle tre lingue: inglese, francese o tedesco. E ciò in violazione del comma f) dell'art. 28 dello "Statuto dei Funzionari e altri Dipendenti delle Istituzioni Europee" ("Nessuno può essere nominato funzionario se non dimostra di possedere una conoscenza approfondita di una delle lingue della Comunità e una conoscenza soddisfacente di un'altra lingua della Comunità nella misura necessaria alle funzioni ch'egli si appresta a svolgere") e disattendendo completamente gli orientamenti espressi pochi giorni prima (21 novembre 2002) dal Segretariato Generale della Commissione (v. qui al punto 4). Contro questa decisione hanno protestato, in una riunione del Comitato dei Rappresentanti Permanenti tenuta il 5 marzo 2003, gli ambasciatori d'Italia (Vattani), Spagna (Bastareche), Portogallo (Mendonca e Moura). La questione è ancora in discussione (cfr. Allegato 1).

3. Dalla prassi provvisoria verso una decisione "ufficiale"? Nella contingenza dei casi gli uffici responsabili dichiarano di obbedire a una certa prassi per ragioni "d'urgenza e d'economia finanziaria" (è l'espressione usata dall'esponente dell' EPSO nella discussione sollevata nella citata riunione del 5 marzo 2003). Non è nelle possibilità dello scrivente discutere se, come e in quali circostanze tali ragioni sarebbero invece superabili: resta però in tutta evidenza che gli uffici si comportano autonomamente senza che si sia delineata, nelle sedi deputate, alcuna politica linguistica dibattuta e formalmente adottata. La verità è, dunque, che la questione delle "lingue di lavoro" resta del tutto irrisolta sul tappeto e viene perciò affrontata per vie di fatto, le quali però potrebbero preparare il terreno a soluzioni ufficiali "obbligate".

4. La riunione consultiva degli esperti dei Paesi membri a Bruxelles nel gennaio 2003. Nei giorni 27 e 28 gennaio 2003 si è tenuta a Bruxelles una riunione di esperti linguistici dei 15 Paesi membri attuali (con l'aggiunta di alcuni dei Paesi candidati, di un osservatore della Confederazione Elvetica e di un osservatore dell'ONU), convocati dal Segretario Generale (David O'Sullivan) della Commissione Europea, d'intesa con il Parlamento Europeo e il CICEB (Consociatio Institutorum Culturalium Europaeorum inter Belgas)2, per discutere principalmente la questione delle "lingue di lavoro". Tale riunione è scaturita da una presa di posizione del Segretariato Generale della Commissione Europea, che in data 21 novembre 2002 ha tracciato, in un documento, il progetto di un'ampia consultazione, da tenere nel corso del 2003, sul tema "Il multilinguismo nell'Unione Europea e nelle sue istituzioni". L'incontro del 27 e 28 gennaio era di preparazione a uno più impegnativo previsto per il 5 e 6 maggio 2003 (poi differito al 10 e 11 giugno). Il documento del 21 novembre dà, naturalmente, molto risalto al valore del multilinguismo nella vita dell'Unione, argomento difeso con calore dalla maggioranza degli esperti presenti all'incontro preparatorio. Le opinioni dei quali, sulla questione specifica delle "lingue di lavoro", si sono divise tra le seguenti tesi: a) una sola lingua, l'inglese; b) un gruppo ristretto di lingue, da tenere possibilmente nel numero di cinque; c) un gruppo anche abbastanza largo di lingue. La prima tesi ha avuto uno scarsissimo numero di sostenitori ed è stata avversata da molte parti, non per ragioni riferibili a quella specifica lingua, ma principalmente per due ragioni intrinseche: una qualsiasi "lingua franca" risulta "aculturale" e non esprime una identità europea; il "passaggio" di contenuti concettuali complessi (di qualsiasi genere) elaborati in seno a tante culture diverse entro le forme di una sola lingua non potrebbe che produrre semplificazioni eccessive (su questo aspetto hanno insistito in molti, partendo da esemplificazioni specifiche fatte dalla prof. Carla Marello dell'Univerità di Torino). La seconda tesi ha raccolto, in linea di principio, l'adesione della maggioranza dei partecipanti, anche se la scelta di un gruppo ristretto di lingue presenta, alla fine, non poche difficoltà (alle quali cerca di trovare una soluzione la proposta della rappresentanza italiana: v. punto 5). La terza tesi è stata solo genericamente adombrata da quanti ritengono non inaccettabile un forte costo finanziario a fronte di un obiettivo così importante come quello di far "vivere" una notevole pluralità di lingue nei luoghi centrali dell'Unione.

5. Una proposta italiana, accolta con favore nella riunione consultiva di Bruxelles. La rappresentanza italiana3, aderendo pienamente alla seconda tesi, ha elaborato nel corso del dibattito e proposto a conclusione di questo una soluzione, appoggiata da vari interlocutori4 e risultata (a parere del coordinatore dell'incontro, Jérome Vignon, del Segretariato della Commissione) come unica da portare in discussione alla riunione successiva. La proposta italiana si riassume nei seguenti punti: 1) se si riconosce definitivamente la necessità di ridurre fortemente il numero delle lingue di lavoro, si chiede di dare lo statuto di "lingue di lavoro" a 5 lingue scelte tra quelle degli attuali Paesi membri, secondo criteri che tengano conto di "valori" diversi; 2) occorre compensare il privilegio accordato alle "lingue di lavoro" con progranni, sostenuti finanziariamente dai Paesi di riferimento di tali lingue, intesi a promuovere la diffusione delle altre lingue fuori dei rispettivi Paesi. Quanto ai criteri per la scelta delle "lingue di lavoro", sembra difficile non dedurli dall'insieme dei seguenti requisiti: a) presenza del Paese interessato tra i fondatori dell'Unione b) notevole entità demografica del Paese (requisito che contribuisce a ridurre il numero dei cittadini europei linguisticamente "non rappresentati" nella quotidianità dei dibattiti) c) già apprezzabile diffusione della lingua al di fuori del Paese di appartenenza nei diversi Paesi dell'Unione d) entità del contributo del Paese al bilancio comunitario e) antico ed esteso, arealmente e tipologicamente, contributo della cultura di quel Paese alla costruzione della civiltà europea. L'idea di una "compensazione" mediante programmi di promozione diretta (consistente in finanziamenti per ricerche, istituzione di corsi scolastici negli altri Paesi dell'Unione, formazione di traduttori e interpreti in quella lingua, soggiorni di docenti e studenti, ecc.) risulta del tutto idonea proprio alla luce dell'iniziativa presa dall'Ufficio per l'assunzione del personale (v. punto 2).

6. Ricadute della politica linguistica dell'Unione nel "mercato delle lingue" e in particolare nel settore della formazione dei "mediatori" linguistici e culturali. L'iniziativa presa nel dicembre 2002 dall' Ufficio Europeo per le assunzioni andrebbe immediatamente bloccata, con interventi più determinati dei rappresentanti dei Paesi "esclusi". Senza una decisione politica che introduca e promuova una sostanziale equiparazione di prestigio e di circolazione delle lingue nelle Istituzioni comunitarie e nella società "esterna" a queste, nei Paesi di lingua diversa da quelle prescelte si attiverebbe, infatti, una immediata reazione a catena, data dai seguenti fenomeni: - moltiplicazione selvaggia dei corsi in quelle tre lingue e progressiva riduzione dell'insegnamento di altre lingue; - crescente difficoltà, per mancanza di richiesta generale, di produrre interpreti e traduttori di alto livello che assicurino gli scambi tra le diverse lingue nelle sedi più importanti; - difficoltà di avere a disposizione, anche nelle sedi parlamentari, tali categorie di mediatori linguistici e quindi preselezione anche dei rappresentanti elettivi in base alla loro pregressa conoscenza (non approssimativa!) di almeno una delle lingue di lavoro; - maggiori costi in assoluto, sempre nei Paesi svantaggiati, per la fornitura di corsi in altre lingue (le prescelte) senza mai godere del vantaggio di utilizzare la propria lingua come capitale già posseduto. È infine evidente che la richiesta di conoscenza di lingue, per scopi amministrativi, finanziari-economici e politici rilevanti, come quella generata dal funzionamento degli organismi dell'Unione, risulterebbe sempre più dominante su altri tipi di richieste, come quelle per scopi turistici e culturali.

7. La posizione delle Accademie e Istituzioni linguistiche nazionali. Si richiama in questa occasione l'esplicita posizione a sostegno di un plurilinguismo effettivo, assunta nel 2001 con le "Raccomandazioni di Mannheim-Firenze" (testo nell'Allegato 2) dalle Accademie e Istituzioni linguistiche nazionali dei 15 Paesi membri, successivamente riunitesi (a Bruxelles nel giugno 2002) in Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali. 

 

* Il presente testo è stato elaborato, a commento della riunione di consultazione del 27-28 gennaio 2003, da Francesco Sabatini e Carla Marello. 
1. Queste e altre informazioni sui due Servizi si ricavano dai rispettivi siti ufficiali: http://europa.eu.int./comm/dgs/translation/index_it.htm, e http://europa.eu.int/comm/scic . Per un commento a questi dati cfr. l'art. di Cecilia Robustelli, L'italiano lingua d'Europa, in corso di pubblicazione in "LIMES". 
2. Al CICEB aderiscono: il Goethe Institut, l'Alliance Français, il British Council, l'Instituto Cervantes, l'Istituto Italiano di Cultura, il Danske Institut, il Suomen Benelux Instituutii. 
3. Ne hanno fatto parte i proff.: Renato Corsetti (dell'Università di Roma "La Sapienza"); Carla Marello (dell'Università di Torino; Segretaria dell'ASLI, Associazione per la Storia della Lingua Italiana, per delega del Presidente, Gian Luigi Beccaria); Carlo Ossola (già dell'Università di Torino; Presidente dell'AISLLI, Associazione per lo Studio della Lingua e della Letteratura Italiana); Francesco Sabatini (dell'Università di Roma Tre; Presidente dell'Accademia della Crusca); Serge Vanvolsem (dell'Università di Lovanio; esperto nominato dall'Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, partecipante a sua volta con il Direttore, prof. Sira Miori). 
4. Commentata con favore esplicitamente da: Ammon e Stickel (Germania), Crystal (Irlanda), Voigt (Lussemburgo), Fox (Servizio Traduzioni), Pérez Vidal (Consiglio d'Europa), Schaerer (Confederazione Elvetica), Fabre (ONU). 

 

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