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La scuola digitale


Febbraio 2018

Rosario Coluccia

 

Nel sito del «MIUR. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca» (www.istruzione.it) c’è una pagina intitolata «la buona Scuola digitale», che illustra il «Piano Nazionale Scuola Digitale». Si tratta di un documento del Ministero che punta a innestare nella scuola italiana una strategia innovativa, adeguando il sistema educativo alle nuove situazioni dell’era digitale. Un tentativo, in linea di principio assai opportuno, di misurarsi con la sfida del tempo in cui viviamo.
Il piano prevede evolute modalità di connessione alla rete, attrezzature e ambienti idonei a forme di didattica digitale negli oltre 33.000 plessi scolastici del territorio nazionale (326.000 aule, a tanto ammonta il patrimonio dell’edilizia scolastica). A questo ambizioso sforzo strutturale si collega la prevista digitalizzazione amministrativa, con la progressiva dismissione delle pratiche e degli archivi cartacei. Ma, soprattutto, il miglioramento delle strutture logistiche e informatiche è funzionale al raggiungimento di obiettivi sostanziali: elevare la qualità della formazione del personale insegnante, fare buona didattica con buoni contenuti, rafforzare le competenze e l’apprendimento degli studenti. In poche parole: una scuola migliore.

Per i risultati bisognerà attendere. Ma fin d’ora si può parlare di qualcosa che possiamo verificare subito, a partire dalla veste formale del documento. Requisito fondamentale di un testo è farsi capire facilmente. Se questo è l’obiettivo primario, è difficile essere d’accordo con l’uso ripetuto nel documento di espressioni come «Stakeholder Club per la scuola digitale», anche se l’opportuna chiosa di p. 9 spiega che si allude a «un partenariato permanente che renda la nostra scuola capace di sostenere il cambiamento e l’innovazione» (più spesso senza commento, pp. 115, 116, 120, 132, 137). L’Azione ≠20, «Girls in Tech & Science» punta a favorire lo studio di discipline tecniche e scientifiche da parte delle studentesse, ancora numericamente inferiori rispetto ai colleghi maschi. L’inaccettabile divario nasce dalla constatazione che «le nostre ragazze, più delle loro coetanee in altri paesi, vivono in un contesto che porta a minori aspettative di risultato e quindi di carriera negli ambiti collegati alle scienze, alla tecnologia, all’ingegneria e alla matematica (le cosiddette discipline STEM), sebbene i test di ingresso e gli esiti di apprendimento dimostrino ampiamente il contrario» (p. 89). Giusto. Ma perché ricorrere all’inglese per etichettare un’iniziativa del tutto condivisibile, per di più riferita a un problema squisitamente italiano? Chiarisco. La E della sigla STEM (con cui si indicano gli «ambiti collegati alle scienze, alla tecnologia, all’ingegneria e alla matematica») deriva dalla parola inglese «Engineering», non dall’italiano «Ingegneria». Analogo processo a pp. 30 e 84: qui ricorre STEAM, acronimo di «Science, Technology, Engineering, Arts & Maths» (con l’aggiunta di «Arts» al precedente). Gli acronimi dall’inglese non facilitano la comprensione immediata dei contenuti. Spesso noi italiani non ci badiamo. Non siamo stati attenti con la sigla dell’AIDS (è entrata nella nostra lingua nel 1982), facendo nostra la sequenza sintattica inglese «Acquired Immuno-Deficiency Syndrome». Di conseguenza, non molti parlanti sono in grado di sciogliere correttamente la sequenza originaria. Invece avremmo potuto scegliere di definire quella affezione virale SIDA «Sindrome da Immuno-Deficienza Acquisita», come hanno fatto i francesi che dicono le SIDA «Syndrome d'Immuno-Déficience Acquise» e gli spagnoli che dicono el SIDA «Síndrome de Inmuno-Deficiencia Adquirida».

Andiamo avanti. Con difficoltà, solo ricorrendo ad altre fonti, ho appreso che LMS «Learning Management System» (pp. 18 e 97) è la piattaforma applicativa (o insieme di programmi) che permette l’erogazione dei corsi in modalità e-learning (l’inglese, ancora una volta; insegnamento a distanza, direi in italiano). Probabilmente l’esplicita traduzione italiana di BYOD «Bring Your Own Device» (pp. 41, 47, 133, 136) con ‘porta il tuo dispositivo’, mi avrebbe aiutato a capire appieno che quella Azione sollecita «politiche per cui l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche sia possibile ed efficientemente integrato» (p. 47).
Agli occhi di alcuni l’inglese può apparire seducente o offrire l’apparenza di un tecnicismo superiore (specie se si riferisce a pratiche sviluppate anche fuori dai confini nazionali). Ma nel nostro caso è utilizzato con frequenza eccessiva e con formulazioni troppo tecniche, rinunciando senza motivo ai possibili equivalenti italiani. Come risultato, non ne viene favorita la comprensione piena di questo importante atto ministeriale, che per diventare operativo e per essere applicato richiede condivisione da parte di chi opera nel mondo della scuola (professori e studenti) o agisce nei paraggi della stessa (famiglie). Insomma, finché è possibile, ≠dilloinitaliano, come recita la petizione di qualche anno fa (che tanto successo ha avuto) che invitava il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a usare un po’ di più la nostra lingua, evitando i forestierismi (a meno che non fossero assolutamente indispensabili). E “usa bene l’italiano” (potremmo aggiungere), badando anche a particolari apparentemente minimi e tuttavia da rispettare senza deviazioni e senza indulgenze. Se non ho contato male, nel testo del MIUR ricorre tre volte la grafia corretta «perché» (con l’accento acuto) e undici volte quella sbagliata «perchè» (con l’accento grave). Siamo nella scuola, l’uso corretto della lingua è fondamentale. Non possiamo permetterci distrazioni.

Il «Piano Nazionale Scuola Digitale» è importante, pone questioni pressanti e lo fa con un’impostazione aperta e a mio parere corretta. Fin dagli inizi, il documento spiega che occuparsi solo di digitalizzazione, invocare la tecnologia fine a sé stessa, non è sufficiente: i problemi della scuola non si risolvono se concentriamo l’attenzione su questi aspetti trascurando la più ampia dimensione culturale. Non basta il semplice richiamo alle opportunità della tecnologia, all’acquisizione e all’utilizzazione di strumenti moderni. Il digitale e la rete, di per sé, non sono sufficienti.
La novità operativa rispetto alle condizioni precedenti è netta. Finora nella scuola vigeva una circolare del 15 marzo 2007 dell’allora ministro Giuseppe Fioroni: «è del tutto evidente che il divieto di utilizzo del cellulare durante le ore di lezione risponde ad una generale norma di correttezza che, peraltro, trova una sua codificazione formale nei doveri indicati nello Statuto delle studentesse e degli studenti». Il divieto era così motivato. L’uso dei dispositivi elettronici può rappresentare un elemento di distrazione sia per chi li usa che per i compagni e una mancanza di rispetto per il docente (una vera e propria infrazione disciplinare). La violazione delle regole comporta sanzioni adeguate, fino al ritiro temporaneo del cellulare durante le ore di lezione, in caso di uso scorretto dello stesso.

L’attuale impostazione del Ministero è assai diversa. L’uso del cellulare personale è ammesso, anzi favorito. Lo sottolinea esplicitamente l’Azione ≠6 «Linee guida per politiche attive di BYOD (Bring Your Own Device)» in italiano diremmo ‘porta il tuo dispositivo’. «La scuola digitale, in collaborazione con le famiglie e gli enti locali deve aprirsi […] a politiche per cui l’utilizzo di dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche sia possibile ed efficientemente integrato. […] Come già avviene in altri paesi, occorre bilanciare l’esigenza di assicurare un uso “fluido” degli ambienti d’apprendimento tramite dispositivi uniformi, che garantiscano un controllato livello di sicurezza, con la possibilità di aprirsi a soluzioni flessibili, che permettano a tutti gli studenti e docenti della scuola di utilizzare un dispositivo, anche proprio» (p. 47).
La possibilità di utilizzare cellulari propri all’interno della scuola implica questioni di riservatezza, oltre alla opportunità di non discriminare l’uso degli stessi in base alle diverse diponibilità finanziarie (e magari anche delle opzioni ideologiche) degli studenti: alcuni potrebbero avvalersi di tablet di ultima generazione, altri possedere solo un cellulare antiquato o non possederne affatto. E andrebbe chiarito a partire da quale fascia di età sia ammessa l’introduzione del cellulare personale in classe.

Veniamo alla questione generale, ai contenuti. Utilizzare le risorse digitali per una didattica efficace non è una novità italiana. Il modello scolastico finlandese è considerato tra i più evoluti al mondo. Proprio dalla Finlandia arrivano l’invito e l’esempio a introdurre durante le lezioni la rete, il computer e il cellulare, ritenuti indispensabile per una metodologia didattica di nuovo tipo. Alle tradizionali discipline di studio si affiancano ulteriori competenze, acquisite con il coinvolgimento di elementi esterni (esperti, musei, biblioteche), utilizzando le opportunità offerte dalle risorse digitali. Una lezione su Pompei e sull’eruzione del Vesuvio che la distrusse diventa lo spunto per confrontare Roma antica con la Finlandia attuale, paragonando le terme romane con quelle di oggi o i moderni impianti per lo sport con il Colosseo, di cui alla fine viene prodotto un modello solido grazie a una stampante in 3D. La tradizionale lezione di storia costituisce occasione perché gli allievi apprendano nozioni di tecnologia e di tecniche della ricerca, di comunicazione e di scambio culturale.

Non è tutto oro quel che luccica. Certo, l’innovazione è inarrestabile e non è possibile farne a meno nella scuola, se si vuole operare in forma attiva e produttiva. Ma, se si osserva la questione dal punto di vista educativo, non c’è spazio per le improvvisazioni, specie se si tratta dei soggetti più giovani.
Da anni gli insegnanti della scuola primaria segnalano la crescente difficoltà dei loro allievi a scrivere manualmente. Nei testi redatti a mano il corsivo in molti casi è sostituito dal maiuscoletto o dallo stampatello, i caratteri appaiono incerti e disallineati, il modo di impugnare la penna tradisce le difficoltà a maneggiare un oggetto quasi estraneo. La laboriosità nello scrivere si collega spesso a una preoccupante perdita di manualità. Molti bambini hanno difficoltà ad allacciarsi le scarpe o ad abbottonarsi i vestiti e, nello stesso tempo, mostrano carenze espressive e linguistiche.

Una ricerca coordinata da Benedetto Vertecchi, Università di Roma Tre, ha mostrato che, con opportuno allenamento alla scrittura manuale, bambini di terza, quarta e quinta elementare, migliorano progressivamente la qualità grafica dei loro testi e nello stesso tempo ottengono una maggiore appropriatezza ortografica e una più accurata selezione del lessico. Il crescente esercizio della scrittura non aumenta semplicemente l’abilità nel tracciare segni sulla carta, ma anche la qualità intrinseca dello scritto, l’articolazione del pensiero e la coesione del testo. A livello cerebrale esiste un legame tra attività manuale e area del linguaggio, che si influenzano reciprocamente. Nel tracciare manualmente i caratteri del corsivo al cervello del bambino è richiesto uno sforzo in più, la forma di ciascuna lettera deve essere continuamente plasmata perché sia possibile legarla alle altre. Si tratta di una sfida che non è presente nel carattere stampatello o quando si adoperano strumenti elettronici come il touchscreen, che richiedono una gestualità semplice e ripetitiva.
Non vale solo per i bambini delle elementari. La difficoltà di scrivere a mano è presente in adolescenti delle scuole secondarie e coinvolge in maniera preoccupante i giovani universitari. Lo stereotipo attribuisce ai medici una scrittura poco leggibile, ma ormai anche gli scritti manuali degli studenti medi e universitari rasentano spesso l’indecifrabilità. Spesso questi testi esprimono pensieri sconclusionati, resi in una forma che non rispetta gli standard minimi di coerenza e coesione.

Molti scriviamo al computer, io lo faccio abitualmente. Ma in questa pratica l’intervento del correttore automatico può ridurre la consapevolezza ortografica e il ricorso ossessivo alla funzione “copia e incolla” può limitare lo sviluppo di linee argomentative coerenti. La rete mette a disposizione di chiunque una massa enorme di informazioni, alcune false (messe in giro per ignoranza o per dolo). Bisogna saper cercare e scegliere; questo lo può fare solo un cervello allenato e consapevole. La superficialità esonera i frequentatori della rete da ogni responsabilità: non hanno bisogno di ricordare, il clic sul computer fornisce loro ciò che in quel momento serve. C’è chi ricorda per te, e tanto basta e avanza. Ma non è così, ci vuole ben altro.
Decisivi sono il recupero delle conoscenze individuali, l’esercizio e il potenziamento della memoria, pratiche spesso vituperate. La memoria un tempo veniva esercitata con profitto: a scuola si imparavano a mente poesie, i nomi delle catene montuose, le date di morte degli imperatori romani. Si tenevano in esercizio le mappe cerebrali dove la memoria ha sede. In seguito l’allenamento della memoria è stato quasi abolito: sembra che la memoria non serva a nulla e anzi sia disdicevole. Errore clamoroso!
Qual è la morale della storia? L’ingresso del digitale nelle scuole non va temuto, va attentamente calibrato. La posta in gioco è altissima. E per vincere bisogna coinvolgere i docenti, senza di loro la partita è persa in partenza.

 

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