Da intransitivo a transitivo: trauma della lingua o dei parlanti?
Marzo 2019
Parlare di lingua per un linguista è oggi a rischio, specie tra i giustizieri grammaticali dei social e dei media, come per un medico parlare di vaccini. Siccome i figli da vaccinare sono i loro, molti pretendono di saperne più degli esperti. E così di lingua, visto che la usano tutti. Nondimeno, certo del desiderio di capire e documentarsi dei nostri lettori, riprendo qui l’argomento che ha suscitato tante polemiche e che di fatto riguarda la norma linguistica e la sua percezione, nella continua tensione tra conservazione e cambiamento. Mi scuso se questo “tema” sarà un po’ più lungo del solito.
È innanzitutto necessario ricordare che la lingua ha norme diverse o meglio: diversamente rigide a seconda dei modi e livelli di impiego, tipi di testo ecc. Ad esempio, come si è visto nel tema del mese scorso con “qual è”, nell’ortografia (che rappresenta al livello più rigido le esigenze della scrittura) una regola relativa alla presenza/assenza di un segno paragrafematico quale l’apostrofo è molto più restia ad essere modificata di una regola fonetica, tant’è che è tuttora un errore scrivere *igenico invece di igienico, anche se la sequenza ie rappresenta qui un dittongo puramente grafico, che non si pronuncia. La modifica di una norma, inoltre, è perlopiù prima accolta di fatto che coscientemente accettata, come ci ricorda Lorenzo Renzi (Come cambia la lingua, il Mulino 2012), quando scrive che l’innovazione di lui/lei con riferimento a un oggetto inanimato, in luogo dei tradizionali esso/essa, sarebbe probabilmente ancora respinta da non pochi parlanti che pure la usano comunemente.
La storia delle lingue ha mostrato quali sono le condizioni perché un’innovazione venga accettata, magari dopo una più o meno lunga resistenza della norma o della consuetudine che vengono modificate o annullate. L’ampiezza e/o l’autorevolezza dell’uso, un valore comunicativo aggiunto, compatibilità col sistema, sono condizioni che ricorrono frequentemente. Quando queste condizioni non si verificano o fino a quando non si verificano abbastanza ampiamente, le innovazioni sono rifiutate dall’utente o il giudizio su di esse resta in sospeso. Un buon esempio ci può venire dalla singolare vicenda della coniugazione del verbo fare e dei suoi composti soddisfare e disfare. Questi verbi sono spinti a livello popolare e in toscano a conguagliarsi su quelli regolari in –are, formando così, poniamo, alla terza plurale del congiuntivo, invece di facciano, *faccino (come scriveva Machiavelli), soddisfino invece di soddisfacciano, disfino in luogo di disfacciano. Ma questa innovazione sta imponendosi per i derivati, anche perché grazie al loro prefisso, assomigliano più di fare a normali verbi in –are: soddisfino come sotterrino, disfino come distino, ma non si afferma per il comunissimo fare, che resiste nella sua coniugazione irregolare, ben padroneggiata, nonostante le (apparenti) anomalie di sistema, dai parlanti. Al contrario, il modello di fare rallenta all’imperfetto indicativo la deriva analogica dei suoi composti verso i verbi regolari in -are, tanto che le pur incombenti novità di *soddisfava e *disfava (su sotterrava e distava) sono ancora (giustamente) avvertite come erronee rispetto alle corrette ed etimologiche soddisfaceva e disfaceva, imposte dal verbo di partenza. Non è finita: i derivati in questione conservano e affermano nelle forme soddisfò e disfò (per altro oggi sostituite nell’uso, con crescente fortuna, da soddìsfo e dìsfo) una variante analogica e popolare del presente indicativo di fare: fo, che il verbo base sta (Toscana a parte) abbandonando. Ma il successo di fo nella coniugazione dei derivati non contribuisce alla resistenza di questa forma nel verbo generatore, quasi che le innovazioni possano essere ereditate dai figli, ma non risalire da essi ai padri. Cosa ci dice questo caso? Ci dice che di fronte a varianti a basso valore aggiunto comunicativo, ancorché dentro paradigmi etimologicamente identici, uso e sistema possono prevalere alternativamente, sì che ora si impone l’autorità, in questo caso differenziante e conservatrice, dell’uno (come nel regolare facciano invece dell’analogico *faccino), ora la potenza (in questo caso) livellante e innovativa dell’altro (come negli analogici soddisfino e disfino in luogo degli etimologici soddisfacciano e disfacciano).
Come abbiamo visto, dunque, in parole simili o addirittura identiche la spinta al cambiamento non si esercita uniformemente su tutto il paradigma che le riguarda, ma colpisce punti diversi e con diverso successo. È quello che possiamo osservare anche guardando i chiacchierati costrutti “siedi il bambino”, “esci il cane” ecc.
L’italiano popolare e regionale ci mette qui di fronte a un’innovazione di sistema, usando come transitivi dei verbi intransitivi. Per la verità, lo fa in maniera parziale (la verifica del passivo non è ancora né sempre valida), ma all’interno di un processo che coinvolge svariati verbi di moto e ha investito da tempo le lingue neolatine. In francese non c’è problema a asseoir l’enfant, sortir le chien, entrer la voiture, monter le courrier e in spagnolo il Diccionario della Real Academia classifica come prevalentemente transitivo sentàr, sedere, e riporta senza scandalo gli usi transitivi di entrar[1], nel senso di “far entrare” (proprio anche del catalano) e di subir in quello di “portare qualcuno o qualcosa a un piano più alto” (registrato anche nel Novo dicionarìo compacto da lengua portuguesa di A. de Morais Silva): segno di una certa inclinazione al transitivo di questi verbi, e anche di altri, in verità, specie quelli già predisposti al costrutto dalla consuetudine col cosiddetto oggetto interno (da “vivere la vita” a “vivere la montagna”). Vale la pena ricordare, inoltre, che non sono pochi i verbi che da intransitivi, nella loro storia, sono diventati transitivi, con varie differenze, più o meno sensibili, di significato (abitare in montagna/ abitare la montagna, avanzare negli studi/ avanzare richieste); e ovviamente anche il contrario (gli aumentano lo stipendio/ i prezzi aumentano del 5 per cento). Data la parziale infrazione e deficit di sistema nella transitivizzazione dei suddetti verbi di moto (passivo problematico o mancante e quindi problematicità o mancanza del prezioso doppio punto di vista consentito dai normali verbi transitivi, che possono essere volti dall’attivo al passivo), l’uso più autorevole e formale (e in gran parte anche la coscienza comune) respinge l’innovazione, tanto che una nostra riflessione su di essa in rapporto ai vari livelli d'uso ha scatenato polemiche e sconcerto.
Ma perché l’uso, sia pure informale, familiare, poco consapevole, regionale, presenta sempre più spesso queste innovazioni, tanto che si moltiplicano le domande sulla loro liceità? Ricordando che Dante in Convivio I, 10 ammonisce che le novità debbono essere meglio e più motivate delle conservazioni ("vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente"), proviamo a guardare dentro di esse, giuste o sbagliate che siano, e nelle loro motivazioni. Facciamoci subito una domanda. Perché queste novità si affacciano in frasi come siedi il bambino e non in *siedi il dottore o *siedi l’avvocato, o, per prendere il caso più controverso, in esci il cane e non in *esci il dottore o *esci l’avvocato?
In fondo la frase standard corretta è sempre la stessa, cioè il costrutto causativo “fare uscire, sedere x” quale che sia il soggetto x del verbo all’infinito. Ma l’innovazione comincia ad affacciarsi in quei casi in cui il soggetto grammaticale (il cane che esce, il bambino che [si?] siede) non è anche quello logico, perché il cane non può abitualmente uscire da solo di casa e il bambino non è ancora in grado di sedersi, come invece accade per il dottore o l’avvocato. Il cambiamento comincia cioè da un punto di “debolezza” del sistema, che propone lo stesso costrutto per casi e quindi significati diversi. La lingua sembra aver percepito, segnalandola con una forma differente, la scarsa autonomia logica del soggetto grammaticale del verbo all’infinito nella frase standard. L’innovazione si insinua, infatti - sia pure, al momento, solo a livelli popolari, regionali e pratici (in genere i primi a reagire) - con soggetti che non si muovono, per così dire, con le proprie gambe o autonomamente, e non si presenta invece, a nessun livello, con quelli che lo possono fare. In alcuni italiani regionali si dice scendi il cane, il pacco, ma non *scendi lo zio, a meno che questi non sia paralizzato su una carrozzina. Il fatto è che esci il cane corrisponde a un significato un po’ diverso dallo standard “fai uscire il cane” (dove in teoria potrebbe uscire solo il cane) e diventa “porta fuori il cane” (escono in due, padrone e cane!). Mentre *esci l’avvocato non sarebbe parafrasabile con “porta fuori l’avvocato” (a meno che l’avvocato non sia anche lui paralizzato), ma sempre con “fai uscire l’avvocato”, cioè proprio quella frase standard il cui eventuale cambiamento di costrutto, in questo significato, non produrrebbe alcun vantaggio comunicativo (e infatti la novità, con soggetti animati e autonomi, non si affaccia). Allo stesso modo, si sta diffondendo siedi il bambino ma non *siedi il dottore; la ragione è la stessa: in siedi il bambino il cambio di costruzione corrisponde a un cambio di significato (posalo, adagialo, mettilo…), che non ci sarebbe invece in *siedi il dottore, che si siede da solo, e quindi, è perfettamente detto dalla frase standard, che basta e avanza (“fai sedere il dottore”). Anche in scendi il pacco il significato non è “fai scendere il pacco”, ma “porta giù il pacco”, perché il pacco non scende da solo per le scale, come invece farebbe uno zio sano, che non “si porta giù” ma eventualmente “si fa scendere”, magari ubbidendo alla richiesta al citofono di chi è venuto a prenderlo e lo aspetta in basso (e quindi l’eventuale innovazione *scendi lo zio non serve e non attecchisce). Stessa cosa si potrebbe dire per salire. Insomma, può valere un po’ per tutti questi verbi l’impeccabile definizione dell’uso transitivo di sortir in francese (attestato dalla fine del Cinquecento) data dal Petit Robert: “portare fuori qualcuno che non può farlo da solo”.
Si vede allora che queste innovazioni, che forzano il sistema, hanno però, per così dire, un valore comunicativo aggiunto, perché al cambiamento di forma ne corrisponde uno di significato, che compensa, anche se solo parzialmente, la perdita della possibilità del passivo, in genere meno richiesta dai parlanti. Per questo, le novità in questione sono così diffuse, ma, ecco il punto, soltanto con quei dati tipi di soggetto. D’altra parte, lo abbiamo visto con gli esempi delle coniugazioni di fare e composti, le innovazioni non sono (almeno all’inizio) sistematiche, invasive, ma mirate, circoscritte.
Siamo dunque di fronte a innovazioni in incubazione, almeno a mio giudizio accettabili a livello pratico e familiare, soprattutto parlato (specie nel caso di sedere, che non a caso ha già un uso riflessivo, sedersi)[2], ma per il momento sconsigliabili o comunque ancora deprezzate (come si è ampiamente visto) nell’uso formale e scritto e nella coscienza riflessa popolare, perché pesano su di esse l’assenza di un uso autorevole e l’incoerenza di sistema, molto riprovata a scuola.
Note:
[1] Va ricordato che il Diccionario panhispànico de dudas precisa invece che l’uso transitivo di entrar, pur ampio, non è passato nella lingua colta.
[2] Il GRADIT di De Mauro non pone restrizioni all’uso transitivo di sedere, mentre restringe all’ambito regionale quello degli altri verbi qui esaminati.
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